Noi repubblicani: da dove veniamo 1896 - 1897

21.Le prime battaglie di fondo del partito repubblicano

Mi piace, a questo punto, riportare quanto scrisse Bruno di Porto, nel suo libro Il P.R.I., profilo per una storia dalle origini alle odierne battaglie (Ufficio stampa del PRI, Roma 1963)

"Il Partito, appena sorto, dovette affrontare grandi battaglie di fondo, dedicando tutta la sua attenzione ai pericoli della politica crispina, specialmente in materia coloniale, e ai tumulti interni scoppiati dopo la caduta di Crispi e molto duramente repressi sotto Pelloux.

L'atteggiamento del Partito rispetto a queste due serie di fatti salienti della vita italiana di quegli anni richiede, come premessa, una breve analisi della sua politica e della sua ideologia in materia coloniale e in materia sociale.

Quando, il primo marzo 1896, si verificò il disastro di Adua, tra i repubblicani non si espresse soltanto il biasimo, ovvio in un partito di opposizione, per l'imprevidenza dimostrata dal comando in Africa e dallo stesso governo, ma nel clima di commozione per quella perdita ingente di uomini, di mezzi e di prestigio, essi ribadirono, insieme ai socialisti, la loro radicale opposizione al colonialismo.....

Il discorso più consapevole che si oppose ai colonialisti dal punto di vista degli interessi italiani e proletari, in campo repubblicano, ci pare quello di Napoleone Colajanni nel suo libro Politica coloniale, pubblicato già cinque anni prima del disastro di Adua.

La democrazia – così scriveva Colajanni – odia e combatte la politica coloniale perchè è una politica estensiva. Essa lascia incolti i terreni della madre patria; va a fare dei porti, dei canali, delle ferrovie su tutti i punti del mondo, mentre non ha abbastanza denaro per fare altrettanto bene in casa propria; va a creare sbocchi presso gente che non ha mezzi per comprare le nostre merci o non ha bisogno di esse, mentre richiude in casa le proprie colle tariffe di trasporto troppo elevate ....; si preoccupa di incivilire i barbari e non pensa a pagare bene i maestri di scuola in casa propria;..... La democrazia odia e combatte la politica coloniale perchè le preferisce una politica intensiva; da questa attende che ripartisca le imposte, che ci schiacciano, proporzionalmente alle risorse di ciascuno e non con una progressione al rovescio, che commisuri il raggio di espansione del commercio esterno in ragione dell'intensità della produzione interna, che voglia evitare le guerre di commercio, che riuscirono sempre contrarie allo scopo di coloro che le avevano intraprese.

E ancora: La democrazia odia e combatte la politica coloniale perchè si preoccupa più della distribuzione equa di una modesta ricchezza che dell'accumulo di una colossale nelle mani di pochi cresi.......perchè ai lavoratori europei nulla importa se pochi capitalisti arrichiscono enormemente sfruttando dei lavoratori di Giava, delle Indie, dell'Africa quando la loro situazione non viene migliorata in modo alcuno, perchè le colonie sono fatte,a spese di tutti, a beneficio di poche classi.

Nel marzo del 1896 si era formato un governo di centro-destra progressista guidato dal marchese Di Rudinì, che subito dopo aver promulgato l'amnistia generale per i fatti di Sicilia e Lunigiana (che avevano comportato la dura repressione del precedente governo Crispi), riprese la politica repressiva contro l'Estrema sinistra.

Di Rudinì ritiene che i repubblicani, per la loro pregiudiziale istituzionale, siano un pericolo costante per lo Stato. Al deputato repubblicano di Lugo, Paolo Taroni, che il 9 dicembre 1896 protesta in Parlamento, il premier ribatte: ci sono carabinieri e manette anche per lei onorevole Taroni!, ma contemporaneamente cerca l'appoggio dei radicali che, privi di Cavallotti, non eletto in Parlamento, ritiene più malleabili.

 

22. I primi deputati repubblicani eletti sotto il simbolo del P.R.I.

I passi decisivi sul piano organizzativo furono mossi nel periodo compreso tra il Congresso di Bologna del novembre del 1895 e il Congresso di Firenze del maggio 1897.

Nonostante le proteste degli ultimi fedelissimi, la grande maggioranza dell'assemblea, aveva deliberato, a Bologna, di riconoscere la partecipazione condizionata degli iscritti per le lotte elettorali amministrative e la libertà dei vari centri di presentarsi pure a quelle politiche, segliendo, a seconda delle opportunità, fra le candidature di protesta e le candidature nettamente repubblicane.

Al Congresso regionale di Livorno (23 agosto 1896) anche le associazioni repubblicane toscane che non avevano partecipato al Congresso di Bologna aderiscono al Partito nazionale con 17 voti a favore, due contro e un astenuto.

Le elezioni del marzo 1897 portano in Parlamento: 327 deputati ministeriali (liberal-conservatori e moderati); 87 alla sinistra costituzionale (monarchica); 92 all'Estrema sinistra che raccolse il 12% dei voti con 41 radicali, 15 socialisti e 26 repubblicani:

Barzilai Salvatore (Roma), Beduschi Cavour (Casalmaggiore), Bosdari Giovanbattista (Ancona), Bovio Giovanni (Minervino Murge), Celli Angelo (Cagli), Colajanni Napoleone (Castrogiovanni), De Andreis Luigi (Ravenna), Del Balzo Carlo (Mirabella Eclano), De Cristoforis Malachia (Milano), Fratti Antonio (Forlì), Gaetani di Laurenzana Antonio (Piedimonte d'Alife), Garavetti Filippo (Sassari), Gattorno Federico (Rimini), Imbriani-Poerio Matteo (Corato), Luzzatto Riccardo (San Daniele nel Friuli), Mirabelli Roberto (Paola), Pansini Pietro (Molfetta), Pantano Edoardo (Terni), Raccuini Domenico (Rieti), Rampoldi Roberto (Pavia), Ravagli Gaetano (Iesi), Socci Ettore (Grosseto), Taroni Paolo (Lugo), Valeri Domenico (Osimo), Vendemini Gino (Santarcangelo di Romagna), Zabeo Egisto (Mirano).

Come si vede, dei 26 deputati repubblicani, ben 9 erano eletti nella zona Romagna-Marche, che assieme ai tre eletti nell'Umbria e nel Lazio, ammontano a 12 (circa la metà dei deputati eletti per la prima volta sotto la bandiera del PRI rappresentavano il territorio già costituente lo Stato pontificio). Un toscano, cinque i nordici, cinque del sud, più un sardo e un siciliano.

Nel marzo 1897 scoppia la guerra greco-turca (alla fine del 1896 i greci di Creta si erano rivoltati contro gli occupanti turchi); circa 700 volontari guidati da Ricciotti, figlio di Giuseppe Garibaldi accorrono per combattere a favore dei greci:

anarchici, socialisti e repubblicani combattono assieme ai greci contro i turchi e assieme muoiono in combattimento a Domokos:

Antinori Alfredo, di Ancona; Barnaba Gaspare, siciliano; Bellini Filippo; Campanozzi Alceste, siciliano; Capra Giovanni di Castel Bolognese; Frappampina Michele; Fraternali Francesco; Fratti Antonio, deputato repubblicano di Forlì; Garroni Romolo, di Roma; Mancini Enrico di Adria; Panseri Ettore, di Bergamo; Pini Antonio, di Arezzo; Silvestri Alarico di Amelia; Silvestrini Ugo, di Castel Bolognese; Simoni Pio, Tomassi Oreste, Trombelli Massimiliano di Roma; muore invece a Zaverda, Troia Filippo di Roma.

A Domokos è ferito Amilcare Cipriani, deputato internazionalista, già volontario garibaldino nella II guerra d'Indipendenza nel 1859 e fra i Mille nel 1860; in Aspromonte nel 1862; rivoluzionario ad Atene, nel 1863; nel 1866 con i Carabinieri genovesi nella carica che a Bezzecca libera la carrozza (dalla quale Garibaldi, ferito, dirigeva la battaglia) circondata dagli Austriaci, nel 1870/71 volontario garibaldino, durante la Comune di Parigi, e nella guerra contro i Prussiani, a capo di un reggimento francese (rifiuterà poi la Legion d'Onore).

Il II Congresso nazionale del PRI si svoge a Firenze dal 27 al 28 maggio 1897 in forma clandestina perchè proibito dal governo. Si migliora e si precisa l'organizzazione del partito, si codificano i rapporti tra di esso e il gruppo parlamentare.

Giovanni Bovio, conscio della crisi in cui versa il mazzinianesimo da molti anni, annota: I più vecchi repubblicani si convertono al re per la poltrona, i più giovani si volgono al socialismo perchè pensano così di combattere più efficacemente per il popolo, pochi superstiti, veri mazziniani si trovan tra due fuochi: detestati da destra e da sinistra......è venuto il momento di definirsi per non sparire.

Bovio porta al Congresso il suo programma: Il PRI rievocando le gloriose tradizioni de' suoi precursori e maestri, riafferma la indissolubilità del programma economico-morale dalla questione politica. Non crede possibile il progresso morale senza il miglioramento delle condizioni economiche dei proletari, ritiene però che nel pauperismo e nella dipendenza economica non risiedono le sole cause dell'asservimento morale e materiale del popolo. Guarda al problema sociale come ad un problema complesso, essenzialmente morale e cerca, nelle forme di un reggimento a base di libertà, il mezzo primo di educazione dei cittadini alla dignità, alla fierezza, alla virtù civile, assicurando al popolo la costante e diretta partecipazione all'amministrazione della cosa pubblica.

 

23. Giovanni Bovio: un nostro Predecessore  dimenticato (!?)

Giovanni Bovio era già stato eletto deputato a Minervino Murge, trentanovenne, nel 1876 essendo fra quei repubblicani, poco inclini all'astensionismo, che accettarono di entrare nel Parlamento regio. Considerava infatti la monarchia come l'attuale realtà italiana, la repubblica un'utopia, e si dichiarava utopista. Nel suo pensiero la monarchia sarebbe caduta, proprio quando la stessa avrebbe dovuto risolvere il problema della libertà.

Ma sarebbe comunque servito un lungo periodo di tempo perché la situazione monarchica si deteriorasse. Per questo considerava irrilevante giurare fedeltà al re.

Studioso autodidatta di diritto e politica, fra i suoi scritti si ricordano la Filosofia del Diritto, il Sommario della storia del diritto in Italia, il Genio, gli Scritti filosofici e politici, la Dottrina dei partiti in Europa, i Discorsi.

Ma qui lo vogliamo ricordare come deputato e come uomo, che così Mario Rapisardi immortalò nella lapide posta nel 1903 a Napoli (*), sulla casa dove abitò: “In questa casa morì povero e incontaminato Giovanni Bovio che meditando con animo libero l'Infinito e consacrando le ragioni dei popoli in pagine adamantine ravvivò d'alta luce il pensiero italico e precorse veggente la nuova età.

Fu tanto povero che dovette anche dimettersi da deputato, motivando la sua decisione essendo “costretto a rivolgere tutta la sua attività a procurare il pane” alla sua famiglia; tanto nobile che rifiutò ripetutamente di essere ministro per non “tradire il re” in quanto dichiaratamente repubblicano.

Nel 1888 la stampa dell'epoca raccontò un episodio che lo coinvolse: Un banchiere francese, del quale non ripetiamo il nome, aveva offerto un milione e duecentomila lire purchè Bovio lo aiutasse a concedere un prestito che stava negoziando col governo italiano. Il furbo speculatore si rivolgeva a Bovio perchè era un uomo puro e un affare da lui raccomandato avrebbe profondamente colpito gli uomini del governo come fatto straordinario e degno della massima considerazione. Un milione e duecentomila lire erano una tentazione per chi lavorava e sudava e lottava per guadagnare cento lire.

Ma Bovio non di meno – e per il Governo l'affare si presentava redditizio e la legge sicuramente non sarebbe stata violata – così rispondeva con lettera 5 dicembre 1888: La proposizione fattami indica chiaramente che voi mi avete veduto e udito, ma non mi avete conosciuto. Per fare a me siffatta proposta, voi avete dovuto indicare ai banchieri che verranno in Roma il mio nome, e permettete che lo difenda io, che non ho altro da custodire e da trasmettere. Lo difenderò spiegandovi in poche parole il fatto e me. Il fatto, comunque colorato e velato, è di quelli che si chiamano affari, e che i deputati non debbono trattare né coi ministri, né con uffici e compagnie dipendenti dal governo. Non c'è legge che vi si opponga, ma i fatti peggiori non sono quelli che cadono sotto le sanzioni. Quanto a me, né a voi che siete stato a Napoli, né ad altri può essere ignoto che io sostento me e la famiglia dì per dì, insegnando e scrivendo filosofia, congiunta con un po' di matematica, ma con aritmetica che non è arrivata mai al milione. Se il lavoro mi frutta l'indipendenza, il milione mi è soverchio. Voi scrivete che tutto sarebbe fatto di cheto in Roma, senza che altri ne sappia. E non lo saprei io? E non porto nella mia coscienza un codice? I banchieri possono lasciare la loro coscienza a piè delle Alpi e ripigliarsela al ritorno; ma io la porto dovunque, perchè la dentro ci sono gli ultimi ideali che ho potuto salvare dalle delusioni. Voi scrivete che è opera di buon cittadino questa mediazione; ed io vi dico che è opera di onesto uomo non far mai ciò che si ha bisogno di tacere e di coprire.

Due anni dopo la sua morte (nel 1905), anche a Forlimpopoli (in provincia di Forlì) fu apposta una lapide per ricordare Bovio, a cura della sezione del P.R.I.

“A Giovanni Bovio che attinse dall'universo la visione del vero senza vincoli e senza confini, dalla dottrina e dalla storia la fede nel libero popolare reggimento, dall'animo nobilissimo l'integrità della vita e l'amore verso gli oppressi del mondo.”

(*)Napoli fu la sua città di adozione (era nato a Trani), dove morì il 15 aprile 1903. La città gli ha dedicato una piazza, che i napoletani continuano però a chiamare con l'antico nome di Piazza Borsa. Più conosciuto e amato di lui sarà il figlio Libero Bovio (nato nel 1883), poeta e scrittore del testo di 59 canzoni napoletane di successo, fra le quali 'O paese do' sole, Amor di pastorella, Cara piccina, Chiove, Napule canta, Reginella, Signorinella...

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