16. apr, 2022

39° post - Questione economica 5

Sentiamo ancora l'attualità delle parole di Giuseppe Mazzini che scrisse sulla questione economica 180 anni fa:"L’abolizione della proprietà individuale è il rimedio proposto da parecchi tra i sistemi socialisti dei quali vi parlo, e segnatamente del comunismo. Altri vanno oltre; e trovando il concetto religioso, il concetto di patria falsati dagli errori religiosi, dagli uomini del privilegio e dall’egoismo delle dinastie, chiedono l’abolizione d’ogni religione, d’ogni governo, d’ogni nazionalità. È procedere di fanciulli o di barbari. Perché in nome delle malattie generate da un’aria corrotta, non tenterebbero la soppressione d’ogni gas respirabile?

L’idea di chi vorrebbe, in nome della libertà, fondare l’anarchia e cancellare la società per lasciare solo l’individuo con i suoi diritti, non ha bisogno, come anche voi, della mia critica diretta, mediante prove e argomenti circostanziati e puntuali, a dimostrare l'inconsistenza di quelle idee, convincendovi del contrario; tutto il mio lavoro combatte quel sogno colpevole che rinnega progresso, doveri, fratellanza umana, solidarietà di nazioni, ogni cosa che voi ed io veneriamo.

Ma il sogno di quelli che, limitandosi alla questione economica, chiedono l’abolizione della proprietà individuale e l’ordinamento del comunismo, tocca l’estremo opposto, nega l’individuo, nega la libertà, chiude la via al progresso e impietra per così dire la Società.

La formula generale del comunismo è la seguente: la proprietà d’ogni cosa che produce terre, capitali, mobili, strumenti di lavoro, sia concentrata nello Stato; lo Stato assegni la sua parte di lavoro, a ciascuno; lo Stato assegni a ciascuno una retribuzione, secondo alcuni, con assoluta eguaglianza, e secondo altri, a seconda dei suoi bisogni.Questa, se fosse possibile, sarebbe vita di castori, non d’esseri umani. La libertà, la dignità, la coscienza dell’individuo spariscono in un ordinamento di macchine produttrici. La vita fisica può esservi soddisfatta: la vita morale, la vita intellettuale sono cancellate, e con esse l’emulazione, la libera scelta del lavoro, la libera associazione, gli stimoli a produrre, le gioie della proprietà, le ragioni tutte che inducono a progredire. La famiglia umana è, in quel sistema, un bue al quale basta essere condotto ad una sufficiente pastura.
Chi tra voi vorrebbe rassegnarsi a programma siffatto? L’eguaglianza è conquistata, dicono. Quale?L’eguaglianza nella distribuzione del lavoro? È impossibile. I lavori sono di natura diversa, non calcolabile sulla durata o sulla somma di lavoro compiuta in un’ora, ma sulla difficoltà, sulla minore o maggiore spiacevolezza del lavoro, sul dispendio di vitalità che trascina con sè, sull’utile conferito da esso alla società. Come calcolare l’uguaglianza di un’ora di lavoro passata in una miniera, o nel purificare l’acqua corrotta di una palude, con un’ora passata in un filatoio?

L'impossibilità di siffatto calcolo è tale, che ha suggerito ad alcuni tra i fondatori di sistemi l’idea di fare in modo che ciascuno debba compiere alla volta sua un certo ammontare di lavoro in ogni ramo di utile attività: rimedio assurdo che renderebbe impossibile la bontà dei prodotti senza giungere a sopprimere l’ineguaglianza tra il debole ed il robusto, tra il capace ed il lento nell’intelletto, tra l’uomo di temperamento linfatico e l’uomo di temperamento nervoso. Il lavoro facile e gradito all’uno è grave e difficile all’altro.
L’uguaglianza nel riparto dei prodotti? È impossibile. O l’uguaglianza sarebbe assoluta e costituirebbe un'immensa ingiustizia, non distinguendo tra i bisogni diversi, il risultato dell’organismo, nè tra le forze e la capacità acquistate per un senso di dovere e le forze e la capacità ricevute, senza merito alcuno, dalla natura. O l’eguaglianza sarebbe relativa e calcolata sui bisogni diversi; e non tenendo conto della produzione individuale, violerebbe i diritti di proprietà che il lavorante deve avere per i frutti del suo lavoro.Poi, chi sarebbe arbitro di decidere intorno ai bisogni d’ogni individuo? Lo Stato?

Operai, fratelli miei, siete voi disposti ad accettare una gerarchia di capi padroni nella proprietà comune, padroni dello spirito per mezzo d’una educazione esclusiva, padroni dei corpi per mezzo della determinazione dell’opera, della capacità, dei bisogni? Non è tutto questo il rinnovamento dell’antica schiavitù? Non sarebbero quei capi trascinati dalla teoria d’interesse che rappresenterebbero, e sedotti dall’immenso potere concentrato nelle loro mani, fondatori della dittatura ereditaria delle antiche caste?

No; il Comunismo non conquista l’uguaglianza fra i lavoratori: non aumenta la produzione — ch’è la grande necessità dell’oggi — perché fatta sicura la vita, la natura umana, come s’incontra nei più, è soddisfatta, e l’incentivo a un accrescimento di produzione da diffondersi su tutti i membri della società diventa così piccolo che non basta a scuotere le facoltà; non migliora i prodotti; non conforta il progresso nelle invenzioni; non sarà mai aiutata dalla incerta, ignara direzione collettiva dell’ordinamento.
Ai mali che affaticano i figli del popolo, il Comunismo non ha che un rimedio per proteggerli dalla fame. Or non può farsi questo, non può assicurarsi il diritto alla vita ed al lavoro dell’operaio senza sovvertire tutto quanto l’ordine sociale, senza isterilire la produzione, senza inceppare il progresso, senza cancellare la libertà dell’individuo e incatenarlo, in un ordinamento soldatesco tirannico?