19. lug, 2022

132° post - "L'UNITA' D'ITALIA MORTIFICA MAZZINI" - 4° paragrafo - parte II / 4° capitolo - Dalla seconda guerra d’Indipendenza alla morte di Mazzini/1859-1872

Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 19 luglio 1821 furono condannati a morte per il rivolgimento di Alessandria, Torino, Vercelli, ecc. del marzo ed aprile precedenti, i detenuti cavalier Isidoro Palma di Borgo Franco di Montiers (Torino), capitano Brigata di Genova e Giacomo Garelli di Sassello (Savona), capitano aiutante maggiore Brigata di Genova (impiccato il 21 mentre Palma fu poi esiliato) nel Reggimento Genova Cavalleria e i contumaci Guglielmo Ansaldi di Cervere (Saluzzo) luogotenente colonnello Brigata di Savoia, Urbano Rattazzi di Alessandria, medico, Giovanni Appiani di Torricella (Parma), ingegnere, Giovanni Dossena di Alessandria, avvocato, Fortunato Luzzi di Mortara (Pavia), avvocato, Luigi Baronis di Chieri (Torino), capitano dei dragoni del re, conte Carlo Angelo Bianco di S. Jorioz di Torino, luogotenente nei dragoni del re, Carlo Barandier di Croce Rossa (Chambery-Savoia) sottotenente Brigata di Savoia, conte Carlo Armano di Grosso (Torino) luogotenente, Michele Regis di Castigliole di Saluzzo, colonnello nella Brigata di Savoia, conte Annibale Santorre de Rossi di Pomarolo (detto "Santarosa") di Savigliano (Cuneo), maggiore d'infanteria e sottoaiutante generale, conte Guglielmo Moffa di Lisio di Torino, capitano dei Cavalleggeri del Re, marchese Carlo Assinari di Caraglia (San Marzano) di Torino, colonnello dei Dragoni della Regina ed aiutante di Campo del Re, Giacinto di Provana, di Torino, maggiore d'artiglieria, dei primi scudieri del Principe di Carignano, Evasio Radice di Vercelli, capitano d'artiglieria e professore nella Regia Accademia militare, Ignazio Rossi di Grugliasco (Torino), luogotenente del Corpo Reale d'Artiglieria, conte Carlo Vittorio Morozzo di Magliano e San Michele, di Torino, colonnello dei Cavalleggeri di Piemonte.

L'Unità d'Italia mortifica Mazzini

L’impresa rivoluzionaria incominciata coi Mille a Marsala, terminò al Volturno con Garibaldi e ventiquattromila garibaldini che entrarono trionfalmente a Napoli.
Poco tempo dopo, ad impresa dei Mille conclusa, a Napoli, nelle strade la gente manifestava festosa con la bandiera italiana. Il Palazzo Reale era presidiato dai garibaldini in camicia rossa.
Sullo scalone Mazzini stava salendo e incontrò un Ufficiale garibaldino che lo stava aspettando e gli diede la mano dicendogli:”Sig. Mazzini mi segua, ho l’ordine di scortarla dal Generale Garibaldi.” Mazzini e l’Ufficiale percorsero un corridoio e poi entrarono in una sala, dove Garibaldi stava fumando il suo sigaro e guardava verso il balcone la cui porta d’accesso era aperta. I due si abbracciarono e Mazzini disse all’eroe dei due mondi:”Giuseppe, tieni testa a Cavour e prosegui la marcia verso nord, Roma ti aspetta. Sono certo che arriveremo all’unità in pochi mesi. Evita di proclamare l’annessione di Napoli e della Sicilia al Regno dei Savoia che hanno venduto la tua Nizza alla Francia. Convoca invece un’assemblea costituente con tutti i rappresentanti delle regioni italiane, che decidano liberamente la forma di governo del nuovo Stato italiano.”
Garibaldi gli rispose:”No, per poter contare sull’aiuto dell’esercito piemontese che ritenevo, sia pure a torto, necessario affinché l’impresa riuscisse, ho assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele e sulle nostre bandiere ho scritto “Italia e Vittorio Emanuele” per neutralizzare la guerra che Cavour e i suoi mi facevano per non farmi partire. Ora io mantengo il potere: avrei voluto che Saffi e Cattaneo assumessero la prodittatura della Sicilia e del Napoletano, per rimarcare il carattere democratico e repubblicano dell’impresa, ma nessuno dei due ha voluto accettare. Così il Re ha inviato Giorgio Pallavicino. Non posso rischiare di far precipitare nel caos e nella guerra civile queste terre appena liberate dai Borboni.” A quel punto, Garibaldi in modo amichevole prese con il suo braccio le spalle di Mazzini e lo condusse sul balcone. Come apparirono sul balcone, un frastuono di grida inneggiò ai due eroi:”Viva Mazzini! Viva Garibaldi! Viva la Repubblica! Viva il Re d’ Italia!”
Il giorno seguente, nell’Ufficio del Palazzo del Governo di Napoli, il prodittarore Pallavicino aveva chiamato ad un incontro Mazzini e questi si presentò. Pallavicino esordì dicendo:”Caro Mazzini, Vi ringrazio di aver accettato il mio invito. Come vi sarete reso conto la vostra presenza a Napoli, suscita manifestazioni ora di segno favorevole ora sfavorevole ed è comunque per noi fonte di preoccupazione. Rappresentante del principio repubblicano e propugnatore indefesso di questo principio, voi risvegliate, dimorando tra noi, le difficoltà del re e dei suoi ministri.... Anche non volendo, voi ci dividete. Fate dunque atto di patriottismo allontanandovi da queste province. Agli antichi, aggiungete il nuovo sacrificio che vi domanda la Patria, e la Patria ve ne sarà riconoscente...”
Mazzini, non si mostrò sorpreso dalle parole del prodittatore, ma scosse la testa e lo interruppe:”Credo di essere generoso d’animo; e per questo devo rispondervi con un rifiuto, dandovene ragione. Io rifiuto perché mi parrebbe, esiliandomi volontario, di fare offesa al mio Paese che non può, senza disonorarsi di fronte all’Europa, farsi reo di intolleranza. Mi parrebbe inoltre di fare offesa al re che non può temere di un solo individuo senza dichiararsi debole e mal fermo nell’amore dei sudditi. Io rifiuto perché il desiderio viene non, come voi credete, dal Paese che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne di Garibaldi, ma dal ministro torinese, verso il quale non ho debito alcuno e che io credo funesto all’Unità della Patria. Se gli uomini leali, come voi siete, credono alla mia parola, debito loro è di adoprarsi a convincere non me ma i miei avversari che la via dell’intolleranza da essi seguita è il solo fomite di anarchia che oggi esiste.”
Intanto a Torino, al Palazzo del Governo, Cavour ricevette una lettera di Luigi Carlo Farini e si accinse a leggerla impaziente:”Fu curioso ieri, 26 ottobre 1860, a Teano, l’incontro di Garibaldi col Re. Garibaldi si avanzò a capo di qualche centinaio de’ suoi in camicia rossa e gridò “Viva il Re d’Italia” e il coro “Viva”, ed il re porgere affettuoso la mano all’uomo della leggenda. Facemmo insieme tutti la strada da Presenzano a Teano, Garibaldi alla sinistra del Re, noi tutti, Generalissimi, Generali, Ministri, Aiutanti di Campo, ufficiali d’ordinanza, mescolati colle camicie Rosse a cavallo. Fanti faceva il muso lungo, ma finì per riderne. E’ un bell’episodio politico-militare! Il Re mi dice che Garibaldi, pur facendo sempre i suoi sogni, si mostrò pronto ad ubbidire in tutto e per tutto: ed infatti, prima di entrare a Teano, andò là, indietro, con i suoi uomini, dove il Re, per consiglio di Fanti, ordinò. Ma povero Garibaldi! Non ha più che poche migliaia di soldati buoni, e di autorità politica più punto. Ma non dubitate che sarà trattato con ogni riguardo possibile. Oh bella! Perché volergliene se in fin dei conti cede tutto al Re onestamente?” Cavour appena finito di leggere proruppe in una risata fragorosa!
In quei giorni a Londra Carolina Stansfeld che aveva ricevuto una lettera da Mazzini la lesse al padre Guglielmo:”Sentiamo cosa dice il nostro Mazzini da Napoli. Sono partito da Napoli, col cuore gonfio d’amarezza. Grazie a Cavour e alla debolezza di Garibaldi abbiamo chiuso il secondo periodo del nostro movimento. Il terzo sta per aprirsi. Non avrò più gioia dall’Italia. Non l’avrò neppure, se domani, l’Unità fosse proclamata da Roma. Il Paese, col suo disprezzo di ogni ideale, mi ha ucciso l’anima. Garibaldi dopo aver regalato un regno a Vittorio Emanuele, si è visto mandare a casa i suoi volontari, ufficiali e soldati: i governanti temevano che potessero lavorare per la Repubblica. Così se ne è andato a Caprera a coltivare il suo orto rifiutando il collare dell’Annunziata e il Castello che il Re gli offriva. Benedett’uomo: malgrado il mio dissenso ha anche voluto chiedere al Re che mi togliessero dal capo le condanne alla forca che ho collezionato negli anni, ma Cavour si è opposto alla grazia del sovrano. Meglio così: io non voglio né chiedere, né accettare la grazia dal Re. Tornerò a Londra molto presto.”
La carrozza portò Mazzini prima in Svizzera, poi in Francia, fino a Calais dove si imbarcò per l’Inghilterra. Se un uomo onesto avesse potuto descrivere la figura di Mazzini in questo periodo di allontanamento dall’Italia, sicuramente avrebbe detto, come poi molti alla sua morte avrebbero detto:”Povero Mazzini! Egli conoscerà nuovamente l’esilio senza aver conosciuto il trionfo; le corone di alloro sono per Cavour, l’abile uomo e per Garibaldi, l’eroe soldato; quanto allo sfortunato Giuseppe, tutti gli voltano le spalle. Vattene, paria, allontanati dal banchetto dove vanno a sedersi i ricchi e gli eroi; la tua presenza vi porterebbe imbarazzo e turbamento. Vattene, proscritto, vattene nemico degli dei e degli uomini: tu hai restituito la libertà all’Italia, ma in quale modo? Pregando, cospirando, esponendo senza farlo vedere la tua vita. Povero Mazzini! Vai riprendendo mestamente la strada per Londra, la città delle nebbie eterne. Alla luce del gas, che così spesso in questo paese presbiteriano sostituisce quella del sole, all’angolo di una strada buia, leggerai un giorno sul Times che Venezia è stata liberata, che Roma sta per diventare la capitale d’Italia... E quando l’ingratitudine e l’esilio ti avranno logorato, quando giacerai come Dante in terra straniera, tutta l’Italia griderà: Mazzini è morto, a lui noi dobbiamo tutto. A te innalzeranno statue, le assemblee prenderanno il lutto, i furbi diranno:”Egli è stato mio amico; in me solo egli aveva fiducia...”
Nei giorni che seguirono l’Unità d’Italia, spesso a Torino a casa di Giuditta Sidoli si svolgevano feste e ritrovi. Giuditta Sidoli ora aveva i capelli bianchi, divisi in due grosse bande, secondo la moda del tempo, che le cadevano dalle tempie fino alla metà delle guance. Aveva un tipico salotto ottocentesco al primo piano di una casa sita in Via Borgo Nuovo, quasi di fronte al giardino di Ripari: severo, semplice, con il sofà e le sedie in damasco ricoperto di tela bianca, che faceva risaltare ancor più i suoi vestiti neri, con molti fiori che Giuditta coltivava nei vasi di cristallo, con miniature alle pareti e le chicchere sulla consolle in un angolo, con la grande lampada a petrolio sul tavolino tondo e l’orologio sul caminetto bianco.
Nel salotto quella sera erano presenti giovani repubblicani e non, fra i quali un ufficiale col petto carico di medaglie e nastrini. A un certo punto Giuditta scoppia in una fragorosa risata. Tutti i presenti si girarono verso Giuditta e Melegari, l’antico amico di Mazzini ora monarchico le rivolse la parola:”Giuditta, tu ci stupisci, non è da te ridere così di gusto. Sono anni e anni che, al massimo, ci hai regalato qualche sorriso a fior di labbra.”
“Perdonatemi amici, ma ho ascoltato questo valoroso generale piemontese carico di medaglie e nastrini affermare che grazie al re e al suo esercito l’Italia era fatta. Così non mi sono potuta trattenere…” Giuditta si interruppe, e riprese il suo lavoro di cucito, momentaneamente sospeso, poi rialzò di colpo gli occhi sul generale e gli disse:”Si, è vero, Generale, ma purtroppo i moderati, capitani e ciurma sono tutti all’arrembaggio di questa povera navicella, da poco rimessasi a veleggiare. Voi avete fatto l’Italia e ora ve la mangiate!”