19. giu, 2022
102° post - LA REPRESSIONE PREVENTIVA 5° paragrafo / 1° capitolo - Dai moti dell’Italia centrale all’esilio in Inghilterra (1831 - 1837)
Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 19 giugno 1833 fu fucilato a Chamberry (Savoia) il mazziniano Alessandro Gubernatis ufficiale sardo della brigata Pinerolo per ordine del re Carlo Alberto di Savoia.
La repressione preventiva
Nel regno di Carlo Alberto, a Genova, il giorno seguente, una pioggerella cadeva insistente. Poche persone camminavano per strada e la bettola stava chiudendo quando due soldati uscirono dal locale spingendosi reciprocamente, seguiti da un’ appariscente ragazza. Un poderoso pugno arrivò al volto di uno di questi che iniziò a sanguinare copiosamente dal naso. L’altro impugnò la sciabola e fra i due iniziò uno scambio di sciabolate fino a che uno dei due non riportò una ferita sopra l’occhio che cominciò a sanguinare. In quello stesso momento, mentre la ragazza fuggì, una ronda militare arrivava e arrestava i due portandoli in caserma. Un’ora più tardi, al Palazzo del Governo nell’ufficio del Governatore, un ufficiale, alla presenza del Governatore, stava interrogando il furiere Sacco, bendato sopra all’occhio. “Furiere Sacco, la verità o sarò costretto a mandarla davanti all’inquisitore. I militari della ronda hanno distintamente udito lei e il sergente Allemandi accusarvi a vicenda di aver rivelato alla sgualdrina che vi accompagnava, i segreti della cospirazione mazziniana. Voglio ricordarle che il codice penale prevede che ogni cospirazione di militari sia punita con la morte ignominiosa, e cioè la fucilazione alla schiena; le ricordo anche che lo stesso codice prevede l’impunità per il colpevole che scoprirà i suoi complici e un premio di 300 lire qualora il reo faccia arrestare quella persona che lo abbia spinto alla congiura!” Sacco, impaurito e frastornato si rivolse all’ufficiale:”Sono disposto a parlare e a denunciare i congiurati se avrò salva la vita”. A quel punto Il Governatore intervenne e chinandosi su Sacco lo rassicurò:”Vi assicuro la salvezza e il premio previsto dal codice. Voglio però subito i nomi dei capi della congiura che vogliono rovesciare il nostro sovrano”. “Oltre a me erano addetti alla distribuzione degli opuscoli mazziniani il furiere Turffs e il caporal maggiore Airmini, il cannoniere Piacenza, il sergente Allemandi e il sergente Miglio. I capi di Genova sono i medici Giovan Battista Castagnino e Jacopo Ruffini. Questo lo so per certo avendomelo detto il furiere Turffs, che ha ricevuto dai due medici il materiale da distribuire in caserma”. Il mattino seguente alle dieci del mattino nell’ufficio oltre al Governatore erano seduti il dottor Giovan Battista Castagnino, Jacopo Ruffini e il furiere Turffs. Ruffini gridò rivolto al Governatore:”Non conosco questo individuo, non ho bevuto nè toccato con lui, come spudoratamente afferma; non sono mai andato alle riunioni della società di cui dite: anzi non appartengo ad alcuna società e perciò quello che dice costui sono tutte falsità.” “Lei non può negare di esservi stato e di aver bevuto e toccato con me alla salute della santa Alleanza - replicò Turffs - fu il Noli che mi disse essere lei uno dei capi del Partito”. E ancora Ruffini:”Non è vero e persisto nella mia precedente affermazione. Quest’uomo è pazzo”. In un altro Palazzo del Governo del regno sabaudo, ad Alessandria, nell’Ufficio del Governatore, era invece riunita la Commissione d’inchiesta formata da militari. Sul banco degli imputati c’era un sergente dell’esercito sardo con i polsi stretti nei ferri. Il Commissario lo interrogava:”Voi siete Domenico Ferraris, sergente furiere nel 1° Reggimento reale della Brigata Cuneo. Sappiamo che avete tramato contro la vostra Patria e il Vostro Sovrano e vi aspetta la condanna alla morte ignominiosa. Voi sapete però che in base al codice penale militare ed alla benevolenza del nostro sovrano potete salvare la vita se denunciate coloro che stanno nell’ombra e lasciano che voi moriate nel peggiore dei modi per un militare”. Ferraris si prese la testa fra le mani poi disse:”Non ho tradito la mia patria e quel che ho fatto l’ho fatto in piena coscienza. Non mi importa di morire. Ma voglio morire da soldato e non da traditore. Fatemi ottenere da Sua Maestà l’unica grazia di essere fucilato in fronte anziché alle spalle e che non avrò la commutazione della pena capitale nella galera a vita e morirò lieto, dicendo quanto so”. Dopo alcune ore di spasmodica attesa, il commissario rientrando nella commissione dichiarò:”Imputato Ferraris, Sua Maestà vi concede di essere passato per le armi da soldato, risparmiandovi la morte ignominiosa se parlate. Questo è il decreto firmato di suo pugno.” Dopo aver controllato il documento Ferraris disse:”Come promesso, vi dirò ogni cosa. Innanzi tutto il furiere maggiore Benvenuto ed i furieri Alimondi e Rodolfo sono estranei alla congiura ed hanno sofferto finora il carcere ingiustamente, dovete quindi assolverli da ogni colpa. In Alessandria i capi repubblicani sono l’Ufficiale Pianavia e gli avvocati Girardenghi e Vochieri. E’ inteso che la rivolta scoppierà a Genova dove tutta la nobiltà e tutti i facchini sono guadagnati alla causa e sono pronte le armi per tutti.” Il Commissario impallidì, e guardando l’ufficiale di servizio interruppe Ferraris:”Di quali armi parlate?” “Di fucili, dodicimila fucili con relative palle e polvere nera. Vi informo inoltre che tutti i forti, in Genova, sono guadagnati alla causa rivoluzionaria e tutta la guarnigione colà distaccata, meno l’artiglieria e la cavalleria, è implicata nella congiura.” Immediatamente senza preavviso l’Ufficiale di servizio, uscì quasi correndo dalla sala; il Commissario proseguì l’interrogatorio:”Ditemi di Alessandria!” Ferraris pensò un attimo, poi riprese a parlare:”Udii il contumace Gentilini che l’affare era ormai definito e che si incaricava lui di assassinare il signor tenente colonnello Gallina; l’avvocato Vochieri mi disse che in realtà aveva le note dell’alloggio di vari ufficiali e ciò sarebbe servito ad impedire loro di uscire di casa al momento dello scoppio della rivolta. Il Vochieri ha uno stiletto con fodero a tre colori, regalatogli dal Comitato rivoluzionario centrale di Parigi, con incise sulla lama le parole Libertè, Egalitè; non so altro”.
La sera stessa a Torino nel salone del Palazzo Carignano, un ufficiale leggeva il resoconto degli interrogatori, avvenuti presso le varie Commissioni al re Carlo Alberto e agli ufficiali di stato maggiore. “Sire, la congiura è più ampia e pericolosa del previsto; la rivoluzione scoppierà all’ora convenuta e in tutta la penisola. Quanto al Piemonte si procederebbe con un colpo di mano per impadronirsi della persona di Sua Maestà e dove questa non consentisse ad assumere la condotta della rivoluzione italiana, dovrà prendere la via dell’esilio. Tutte le truppe disponibili marceranno subito sulla Lombardia per appoggiare i moti rivoluzionari che scoppieranno dappertutto: ciò provocherà una violenta reazione dell’ Austria che approfitterà sicuramente per invadere il Regno del Piemonte.” Carlo Alberto, preoccupatissimo, alzò la mano e parlò:”Basta così, mi leggerò attentamente questa nota di cui va fatta copia e inviata urgentemente al Principe di Metternich e al Governo francese che sta ospitando Mazzini e gli altri traditori. Siano istituiti immediatamente i tribunali militari e ove ci siano gli estremi previsti dal Codice per le condanne a morte, queste siano eseguite pubblicamente entro le 24 ore, sia per i militari che per i civili riconosciuti colpevoli”
Nel cortile della caserma a Chambery in Savoia, era schierata la truppa. Vicino al muro di cinta furono collocate due sedie. Da una scala risalente dai sotterranei provenivano due tamburini che accompagnavano i soldati che avevano in mezzo, con i ceppi ai polsi, il tenente Efisio Tola e il caporale Giuseppe Tamburelli. Il suono del tamburo accompagnava lugubremente i passi dei condannati che giunti nel cortile si fermarono: avevano di fronte il plotone di esecuzione ormai schierato e si fermarono all’ordine dell’Ufficiale. “Tenente dei fucilieri Efisio Tola, la Commissione militare vi ha condannato alla morte ignominiosa e quindi non siete più degno di vestire l’uniforme del regio esercito piemontese”. Dopo la lettura dell’ordine, l’Ufficiale strappò le spalline di Tola, poi, presa la sciabola dal soldato del picchetto la spezzò sul ginocchio. Due soldati presero Tola e lo legarono sulla sedia con la schiena rivolta al plotone; poi fecero la stessa cosa con Tamburelli.
I tamburi rullarono, l’Ufficiale alzò la sciabola e ordinò il fuoco contro i due militari che gridarono:”Abbasso il tiranno, Viva l’ Italia!”
Nelle stesse ore, sempre ad Alessandria, l’avvocato Andrea Vochieri, con i ferri ai polsi, in mezzo ad un picchetto di soldati, camminava vigilato per le stradine del centro. Il corteo, scortato dal tamburo maggiore e da 12 tamburini che segnavano il passo lugubremente, passò davanti alla sua casa dove, sulla porta, c’erano la moglie incinta e tre bambini. A questo punto il frate gli si avvicinò e gli parlò:”Avvocato, siete ancora in tempo a salvare la vita parlando”. Vochieri lo guardò con occhi lucidi e sussurrò:”Andiamo!” Il lugubre corteo giunse in Piazza d’Armi, dove era già schierata la Compagnia dei gendarmi pronta per la fucilazione. Appena il corteo si fermò, un frate si avvicinò e mentre il Vochieri si inginocchiava, gli diede la comunione, mentre l’Ufficiale gli leggeva la sentenza:”Per aver cospirato contro il Sovrano e il suo legittimo governo, la Commissione criminale di Alessandria vi ha condannato alla morte ignominiosa che sarà eseguita seduta stante”. Il condannato si alzò in piedi e si rivolse, prima al frate, poi al plotone che gli stava innanzi:”Grazie padre per il conforto che mi avete dato. Muoio tranquillo, perché non ho voluto riscattare dal tiranno piemontese la mia vita, come mi veniva offerto, col tradimento e con lo spergiuro. Io muoio per la libertà, l’ indipendenza....“Basta, tacete, rullino i tamburi…” urlò l’Ufficiale esasperato. Mentre i tamburi ripresero a rullare, due gendarmi, brutalmente, gettarono Vochieri sulla sedia, e lo legarono con la schiena rivolta al plotone, mentre lo stesso urlava le sue ultime parole:”....e la rigenerazione dell’ infelice patria nostra”. I gendarmi erano disposti su due file. I gendarmi della prima fila spararono il primo colpo, ma Vochieri fu solo ferito. Si lamentava. I gendarmi della seconda fila spararono a loro volta, ma Vochieri non morì e continuava a lamentarsi. I gendarmi della prima fila, ancora inginocchiati, caricarono nuovamente i loro fucili, ma un Sergente uscì dal plotone, si avvicinò al Vochieri e gli sparò un colpo di fucile alla testa da vicino. A questo punto il cappuccino urlò:”E’ così che voi giustiziate! Noi facciamo tanto per salvare un’anima e voi l’ammazzate come un cane!”
Nel cortile di un’altra Caserma, la Caserma Brigata Cuneo ad Alessandria, erano schierati in quadrato tutti i soldati del presidio in divisa. Parlò loro il vecchio reazionario tenente generale conte Galateri di Genola, Governatore di Alessandria:”Sono Galateri, Governatore di Alessandria. State per assistere alla fucilazione dei vostri commilitoni giudicati colpevoli di alto tradimento. Il solo sergente Ferraris, per grazia concessa da Sua Maestà in persona, eviterà la morte ignominiosa e morirà da soldato per aver date le informazioni utili a stroncare la rivolta sul nascere. I sergenti furieri Giuseppe Menardi, Giuseppe Rigasso, Armando Costa e Giovanni Marini saranno invece fucilati alla schiena. Uguale sorte subiranno tutti coloro che si rendessero spergiuri al Sovrano e al suo legittimo governo, per seguire quel rinnegato di Mazzini, uomo senza religione e senza morale.” I cinque condannati vennero fatti uscire dalla prigione, al suono dei tamburi, quattro di loro vennero legati alla sedia con la schiena rivolta al plotone, mentre al Ferraris vennero legate le mani dietro la schiena e posto di fronte. L’Ufficiale alzò la sciabola:”Puntate, fuoco!” I condannati si afflosciarono morti e i soldati terminata l’esecuzione rientrarono mestamente nelle camerate.
A Genova, nella caserma del presidio erano schierati come ad Alessandria il plotone d’esecuzione e di fronte ad esso i condannati. L’ufficiale lesse il dispositivo della sentenza:”La regia Commissione criminale di questa piazza ha condannato alla morte ignominiosa per alto tradimento i qui presenti: Antonio Gavotti, civile, in quanto, avvalendosi della sua attività di maestro d’ armi, avvicinava i militari e li istigava alla rivolta, Giuseppe Biglia, sergente dei granatieri, Francesco Miglio, sergente zappatore, Alessandro de Gubernatis, sergente furiere, tutti riconosciuti rei di aver distribuito ai compagni opuscoli mazziniani e il giornale della Giovine Italia.
Dio abbia pietà delle vostre anime”. I quattro vennero legati alla sedia con le spalle rivolte al plotone d’esecuzione e giunti al loro ultimo minuto urlarono insieme:”Morte ai tiranni, Viva l’Italia!” L’Ufficiale con modo isterico allora urlò:”fuoco, fuoco”.
Nella torre di Genova era stata individuata la misera cella di Jacopo Ruffini. L’uomo era pensieroso, camminava nella strettissima cella, si fermò, riflettè, camminò ancora, poi si avvicinò alla porta della prigione e staccò con fatica un pezzo di metallo. L’uomo fissò il pezzo di metallo che, pensava, era come una lama brilla di una luce sinistra. Con l’arma improvvisata si aprì una grande ferita sul collo. Col suo sangue, sulla parete scrisse lentamente:”Mi uccido per non essere costretto, dalle subdole arti del Governatore, a tradire i compagni. Vendicatemi Jacopo Ruffini”.
Nelle stesse ore a Marsiglia, in casa Sidoli, Mazzini con altri giovini leggeva la Gazzetta Piemontese che riportava le condanne inflitte ai compagni:”Leviamoci in piedi ed onoriamo la memoria dei fratelli massacrati da Carlo Alberto, che ha rispolverato il vecchio codice penale di Carlo Felice del 1822. Nessuno di loro è stato preso con un’arma in mano, ma solo con i nostri opuscoli e giornali.” Mazzini si interruppe e si passò una mano sugli occhi, poi riprese:”A questi martiri della nostra idea vanno aggiunti nel ricordo il fratello Jacopo Ruffini, suicidatosi in carcere e Lorenzo Bozzano, anch’egli suicida nella propria abitazione prima di essere arrestato”. E mentre i compagni in piedi chinavano la testa immobili, Mazzini continuò:”Questo è l’elenco dei condannati in contumacia e dichiarati esposti alla pubblica vendetta come nemici della Patria. Il regio fisco militare ha pronunciato contro di me la condanna alla morte ignominiosa in contumacia “per avere sin dall’anno 1831, dall’Estero ove trovavasi rifugiato, concretata, eccitata e promossa, una cospirazione tendente a sconvolgere e distruggere l’attuale Governo di Sua Maestà, mediante insurrezione contro di esso della regia Armata, ecc. ecc.” L’elenco passò di mano in mano mentre Mazzini quasi sussurrava queste parole:”Fratelli, la misura è colma: non è tempo di avvilirsi, è tempo di stringersi...fermi e costanti: la causa che predichiamo è immortale. Non possiamo più rimanere a Marsiglia, che ormai tutta la polizia francese sarà sobillata e sguinzagliata su di noi: dobbiamo purtroppo lasciare la Francia, divenuta terra inospitale per la condotta del Governo, che dimentico dei suoi doveri e delle sue promesse ha ormai fatto lega col re del Piemonte.” I congiurati abbracciarono Mazzini ed uscirono alla spicciolata.