26. giu, 2022
109° post - "'I MOTI RIVOLUZIONARI IN CALABRIA" 4° paragrafo / 2° capitolo - Dall’inizio dell'esilio inglese alla fine della Repubblica Romana (1837-1849)
Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 26 giugno 1849 morirono nella difesa di Roma repubblicana contro i francesi, il capitano di stato maggiore di Garibaldi Laviron, francese, il tenente Tavolacci del Genio, il capitano Giacomo Minuto, della Legione Italiana di Montevideo, Angelo Molinari, il tenente aiutante maggiore Angelo Bolognesi, i tenenti Nicola Fedeli e Cristoforo Zampieri e il sottotenente portabandiera Giuseppe Giovannini di Bologna, Pietro Matteucci di Ravenna, Vincenzo Nesti di Imola, Francesco Padovani, Gaetano Pecci e Francesco Savini di Faenza, Cristoforo Sughi di Forlì. Morirono anche Domenico Villani zappatore del 3° Genio, ferito gravemente il 13 giugno, Gioacchino Marconi del 1° battaglione granatieri, ferito gravemente il 14 giugno e Luigi Caprara del 1° Battaglione Unione ferito gravemente il 25 giugno. Fu ferito anche Matteo Grilli di Lugo caporale del 2° Reggimento di Linea.
I moti rivoluzionari in Calabria
A Londra in un vasto salone, gremito di persone, Mazzini parlò ai capi dell’Organizzazione.
Erano presenti anche Bianco, Usiglio, Modena, e i fratelli Ruffini.
“Purtroppo questo 1843 ha visto il fallimento dei moti che in Italia, l’amico modenese Nicola Fabrizi, pur sapendomi contrario, ha organizzato da Malta con la sua Legione Italica. L’animatore dell’ organizzazione è stato il nizzardo Ignazio Ribotti, già ufficiale piemontese, che ha finito col ritenere che ci fossero parecchie migliaia di uomini pronti a combattere, ma, come noi nel ‘33 e nel ‘34, si sbagliava.
La banda guidata dai fratelli bolognesi Pasquale e Saverio Muratori, formata da circa 80 uomini, dopo alterne vicende si è dissolta, i suoi uomini sono stati condannati a morte e sette sono i fucilati a Bologna.
Il momento dell’azione non è ancora giunto, dobbiamo invece perseverare nella nostra opera di proselitismo e di educazione.”
Due giovani si alzarono, quasi contemporaneamente e chiesero di poter parlare. Il primo disse:”Mi chiamo Attilio Bandiera e questo giovane smanioso che mi sta accanto è mio fratello Emilio. Siamo italiani e uomini di guerra, nati a Venezia dal contrammiraglio austriaco che non sentendo alcun affetto per la sua vera Patria, serve devotissimo la signoria straniera. Anche noi siamo ufficiali della imperial regia marina austriaca, ma non serviremo più l’odiato straniero. Abbiamo aderito alla Giovine Italia fin da giovinetti e abbiamo diffuso in collegio fra i nostri compagni l’odio contro gli oppressori della nostra Patria.
Non siamo d’ accordo sulla politica d’attesa. E’ ora di agire.
Sappiamo per certo che si sta preparando uno moto a Napoli uno all’Aquila e uno in Calabria.
Al sud migliaia e migliaia di persone sono stanche dei tiranni che li governano e vogliono conquistare la libertà e l’unione all’Italia repubblicana.”
Mentre Attilio Bandiera parlava, Mazzini aveva messo la testa fra le mani.
Una settimana dopo, in una bettola di Corfù sul Porto sedevano a un tavolo Emilio ed Attilio Bandiera. Emilio disse al fratello:”Ho scritto poche righe a Mazzini. Anche se non è d’accordo con noi è giusto che conosca le nostre azioni. Gli ho scritto queste parole.
Le notizie di Calabria e di Puglia ci inducono a tentare la sorte.
Là sono pronti uomini audaci e noi, ufficiali temprati alla scuola di guerra austriaca, siamo in grado di guidarli e di dar loro fiducia. Fra poche ore partiamo per la Calabria. Ricordatevi di noi che, se riusciremo nell’impresa saremo fermi nel sostenere quei principi in cui abbiamo insieme creduto. Se soccombiamo, dite ai nostri concittadini che imitino l’esempio. Avremo dato la nostra vita per l’Indipendenza e l’Unità della nostra Italia”
Attilio, commosso si alzò e abbracciò il fratello.
Qualche giorno dopo all’interno dell’ Ufficio del Console napoletano a Corfù, erano presenti i consoli dell’Austria e dello Stato Pontificio. Il console austriaco riempì i bicchieri dei colleghi, mentre quello napoletano rivolto ai colleghi disse:”Signori Consoli potete avvertire Vienna e Roma che i figli del Contrammiraglio sono nel laccio che gli abbiamo messo intorno al capo. La partenza per le coste calabre, con pochi esagitati, nessuno calabrese fra loro, è fissata per domani. Il comandante della nave appena li sbarcherà indicherà il punto esatto dello sbarco al comandante del nostro Brigantino da guerra che incrocia non troppo al largo”.
Il tredici giugno del 1844, una ventina di uomini alla spicciolata salirono a Corfù su piccole imbarcazioni a remi o a vela.
Dopo un po' le quattro barche raggiunsero un trabaccolo che li aspettava al largo. I giovini salirono con la scaletta sul trabaccolo, si radunarono sul ponte in 18 e Attilio Bandiera chiedendo silenzio disse agli altri:”Vi presento il capitano Nicola Ricciotti il quale farà l’appello e scriverà i vostri nomi che poi consegnerà al Comandante della nave. Così, qualora la nostra impresa fallisca, non si potrà dire che un manipolo di sconosciuti è sbarcato in Calabria.”
Il capitano a sua volta continuò dicendo:”Siamo tutti italiani, ma ognuno di noi è cittadino di stati diversi. Quando chiamo il vostro nome favorite rispondere con il nome del vostro paese di nascita, così ci conosceremo meglio. Io sono nato a Frosinone nello Stato del Papa.”
All’appello risposero col nome della loro città: Paolo Mariani (Milano), Giuseppe Miller (Forlì), Giovanni Venerucci (Rimini), Giacomo Rocchi (Lugo di Romagna), Domenico Lupatelli(Perugia), Giuseppe Pacchioni (Bologna), Carlo Osmani (Ancona), Francesco Berti (Lugo di Romagna), Anacarsi Nardi (Modena), Domenico Moro (Venezia), Pietro Piazzoli (Forlì), Tommaso Mazzoli (Bologna), Giuseppe Tesei (Pesaro), Francesco Tesei (Pesaro), Luigi Nanni (Forlì), Giovanni Manessi (Venezia), Pietro Boccheciampe (Corso).
Terminato l’appello, Attilio Bandiera disse ancora:”Il nostro obiettivo è quello di raggiungere Cosenza, di liberare i prigionieri politici e di unirci alle bande di insorti che fanno la guerriglia sui monti della Calabria”
Una mattina di luglio del 1844, entrarono nel cortile del Palazzo di Giustizia a Cosenza, 16 prigionieri con i ferri ai polsi. Il cortile era dentro e fuori pieno di soldati borbonici e i prigionieri scortati dai gendarmi. Il capitano relatore della Corte militare lesse la sentenza:”La Corte marziale esaminati i fatti, sentiti i testimoni, ha pronunciato nei vostri confronti di voi tutti la sentenza della pena di morte. I vostri compagni Giuseppe Miller e Francesco Tesei hanno evitato l’umano giudizio, perché morti in combattimento.
Il nostro amato re Ferdinando, nella sua grande magnanimità si è degnato di graziare Giuseppe Tesei, Pietro Piazzoli, Luigi Nanni, Paolo Mariani e Tommaso Mazzoli, mutando la pena di morte nell’ergastolo.
Pietro Boccheciampe, per la collaborazione prestata alla corte e per le sue utili informazioni è condannato a cinque anni di carcere.
Pertanto domani, 25 luglio 1844, saranno fucilati col terzo grado di pubblico esempio i baroni Attilio ed Emilio Bandiera, e Domenico Moro già ufficiali della imperial regia marina austriaca, Nicola Ricciotti, già tenente delle milizie del regno di Napoli, ancorché suddito degli Stati del Papa, Domenico Lupatelli, Giacomo Rocchi, Giovanni Venerucci e Francesco Berti, civili di condizione operaia, sudditi degli Stati del Papa”.
La mattina del 25 luglio nella prigione di Cosenza, gli otto condannati a morte dormivano tranquillamente. Una guardia li svegliò e loro si misero in ordine i vestiti e cercano di lavarsi e ordinare i capelli.
Scortati dalle guardie per le vie di Cosenza, i prigionieri procedevano scalzi, con le mani legate dietro la schiena, coperti di una lunga tunica nera e con il capo velato.
Il passaggio dei condannati avvenne fra due ali di popolo silenzioso. I giovini iniziarono a cantare l’aria di “donna Caritea” del Mercadante, con opportune varianti:
”Chi per la patria muor- vissuto è assai
La fronda dell’ allor non langue mai
Piuttosto che languir sotto i tiranni
E’ meglio di morir sul fior degli anni”
Giunti al Vallone del Rovito i condannati, appena slegati i polsi, si abbracciarono e si baciarono di fronte al popolo ed ai soldati commossi e mentre l’ufficiale ordinò il fuoco, i condannati gridarono:”Viva l’Italia”
Dopo la fucilazione l’Ufficiale diede il colpo di grazia ad Attilio Bandiera e a Domenico Lupatelli.