15. lug, 2022
128° post - "UN'ALTRA CONDANNA A MORTE" - 1° paragrafo / 4° capitolo - Dalla seconda guerra d’Indipendenza alla morte di Mazzini (1859-1872)
Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 15 luglio 1853 fu fucilato in Ancona per delazione d'arma, il mazziniano Agostino Scalciarini di 55 anni, padre di famiglia.
Un’altra condanna a morte
Nel finire del 1858 Mazzini fu di nuovo in esilio a Londra.
Ormai cinquantenne si trovò a riflettere sulla necessità di recuperare alla causa gli amici che si erano allontanati dal partito in quegli ultimi anni. I giovini lo seguivano ancora, ma lui aveva bisogno dei vecchi che erano i più conosciuti in Italia e una loro firma sotto gli appelli mazziniani avrebbe anticipato il successo di ogni moto. Il fatto che vivessero in Piemonte li poneva al riparo da ogni rischio e in grado di avere maggiori informazioni. Prese, quindi, ancora una volta penna e calamaio e cominciò a scrivere:”Amici, non so darmi pace che uomini come voi, stretti d’antichi legami e nutriti della stessa credenza, non lavorino e non combattano insieme. Siamo tutti repubblicani, crediamo tutti che senza insurrezione non si farà l’Italia. Perché non seguiamo uniti?”
Qualche tempo dopo la spedizione, il portalettere gli recapitò alcune lettere. Mazzini le scorse, ne estrasse una che aprì febbrilmente e si mise subito a leggerla. Si trattava della risposta di Bertani, firmata anche da Cosenz e Medici:”Amico, noi qui in Italia abbiamo un dolore forse a te ignoto o da te non creduto, che ci uguaglia nella fede, ed è quello della poca, nessuna attività e coesione che riconosciamo nel partito più avanzato.
Ma ai tuoi propositi generosi mancano gli individui, i disegni, i mezzi; non vi è che il cieco ardimento di taluni: tesoro inestimabile che, invece di venire cimentato ad ogni istante, dovrebbe essere conservato finché mezzi più confacenti e disegni più concertati, lo possano rendere efficace. Tu credulo a facili promettitori, credi avere da questi il concorso di popolo. Come mai fra un popolo irritato e pronto alla sollevazione, il tuo tamburo, che pur batte da mattina a sera, non raccoglie che pochi militi?...”
Mazzini si fermò nella lettura e si prese la testa fra le mani, poi esclamò:”no, no, amici. Fare si può. I popolani son nostri e organizzati per ogni dove…”
Mentre queste preoccupazioni sovrastavano Mazzini, a Torino nell’ampio salone di Palazzo Carignano, parlavano seduti su un divano il conte di Cavour e Vittorio Emanuele II:”Maestà, la mia politica sta dando i suoi frutti: sfruttando sistematicamente i pazzeschi tentativi rivoluzionari di Mazzini e dei suoi seguaci sono riuscito a spaventare talmente la diplomazia francese che Napoleone III mi ha più volte fatto sapere della sua preoccupazione e mi ha assicurato il suo appoggio all’indirizzo del nostro governo.”
Vittorio Emanuele II ascoltò con attenzione le parole di Cavour e lisciandosi i baffi tra le dita puntualizzò:”l’imperatore dei francesi deve soddisfare il partito clericale che l’ha appoggiato fin’ora, mentre il nostro problema è l’opposto e dobbiamo guardarci dall’invadenza dei clericali sobillati da Pio IX.”
Cavour ascoltò a sua volta con segni di impazienza il re e lo interruppe:”é vero che deve soddisfare il partito cattolico, ma d’altra parte, per la sua posizione di avventuriero giunto sul trono, deve anche cercare di mantenersi in equilibrio, e l’amicizia di un’antica casa regnante come quella dei Savoia, gli è utile. Dobbiamo fare ogni sforzo per attirare nei nostri piani la forza politica che oggi è rappresentata da Napoleone III.”
Tuttavia le strategie del momento seguivano varie strade.
L’imperatore Francesco Giuseppe infatti andò a Milano, e nel palazzo del Governo si pose a colloquio con il nuovo Governatore, suo fratello Massimiliano.
Stavano passeggiando insieme per arrivare nello studiolo del Palazzo del Viceré:”ora che abbiamo pensionato Radetzky - disse Giuseppe - dobbiamo accattivarci maggiormente l’amore dei nostri sudditi o l’avvicinamento sempre più stretto della Francia e del Piemonte finirà per danneggiarci. Provvedete ad una amnistia per i carcerati e per gli esuli, affinché ritornino in patria e revocate il decreto di sequestro di quanti si sono rifugiati in Piemonte.”
In quei giorni, a Parigi, in Rue Lepelletier, la carrozza imperiale, con a bordo Napoleone III e sua moglie Eugenia, stava arrivando, verso le 8,30 di sera al teatro dell’Opera, fra due ali di folla plaudente ai sovrani.
L’imperatore si rivolse alla moglie:”Eugenia, i miei sudditi hanno dimenticato presto la Repubblica, osserva come applaudono: eppure tutto ciò che stiamo facendo in questo momento è di andare a Teatro e goderci una bella serata…”
Mentre l’imperatore stava terminando la sua frase, dalla folla plaudente e compatta si fecero largo tre uomini che, in sequenza, gettarono bombe verso la carrozza.
Fu il panico generale, un fuggi fuggi con persone che cadevano a terra colpite dagli ordigni, mentre la carrozza si faceva largo.
I sovrani, all’interno si guardarono l’un l’altro atterriti, ma illesi.
Fuori una squadra di gendarmi intervenne: furono individuati, ammanettati e strattonati i tre attentatori.
Intanto, alla Corte d’Appello di Genova il Presidente leggeva la sentenza a carico dei partecipanti all’assalto del forte Diamante:”Questa Corte, visti gli atti e i documenti prodotti dal Regio Avvocato del Fisco, per aver diretto o fomentato i disordini di Genova in cui restò ucciso un sergente della guardia di Forte Diamante, condanna alla pena di morte mediante impiccagione i contumaci: Giuseppe Mazzini, avvocato, Antonio Mosto, negoziante, Angelo Mangini, Confettiere, Giambattista Casareto, facchino, Michele Andrea Lastrico, marinaio e Ignazio Pittaluga, ottonaio....”