Giuseppe Bellini, segretario del PRI di Rimini

Riepilogo tra la fine del secolo e la Prima Guerra Mondiale

39. Situazione riepilogativa tra la fine del secolo e l'inizio del '900

(da questo episodio la storia è presa da "Agenda Repubblicana per l'anno 2000 - ed. La Voce Repubblicana"

Il Partito Repubblicano Italiano si costituiva come forza politica organizzata, dotata di proprie strutture permanenti, alla fine del 1895, in un momento di grave crisi per il Paese, da troppo tempo costretto a misurarsi con le difficoltà crescenti poste dalla velleitaria politica espansionistica voluta dai circoli reazionari raccolti intorno alla corona.

Rispetto a questi circoli i repubblicani, negli anni di fine secolo, rappresentarono, sul terreno politico e sul terreno ideale, una valida forza di alternativa che, proprio per il suo rifiuto del dogmatismo ideologico, si dimostrava assai più decisa e assai più concreta di quella che i socialisti tentavano di costruire.

A dispetto delle ricorrenti accuse di formalismo, la pregiudiziale istituzionale (il rifiuto cioè di collaborare con la monarchia), che il PRI mantenne ferma nonostante la fine dell'astensionismo, era l'espressione di un progetto di riforma dello Stato che nè i radicali nè i socialisti erano ancora riusciti ad enucleare, gli uni perchè timorosi di compromettere la loro marcia di avvicinamento verso le istituzioni, gli altri perchè incapaci di guardare alla situazione reale del Paese al di fuori dei rigidi schemi dell'ideologia classista.

All'agnosticismo istituzionale nel quale socialisti e radicali si erano rifugiati, i repubblicani replicarono sostenendo che le aspirazioni di giustizia e di eguaglianza rischiano di essere vane se non si collegano ad una strategia mirante alla creazione di un nuovo modello istituzionale capace di garantire, attraverso la libertà dei cittadini e l'autonomia dei corpi associativi e degli enti locali, il civile confronto delle classi. Le vivaci polemiche tornate ad accendersi nei primi anni del secolo all'interno della sinistra, preannunciarono il determinarsi di quella condizione di difficoltà in cui i repubblicani si sarebbero venuti a trovare durante tutto il decennio giolittiano.

Il gioco degli schieramenti e delle alleanze, non sempre chiare, che si formarono in questo periodo, dovevano far sì che il PRI - l'unico a mantenersi al di fuori di qualunque compromesso - fosse indicato come forza estranea e contraria al sistema in nome di ideali astratti. Nulla di meno esatto di questo giudizio che pretendeva di liquidare il PRI come forza politica attiva.

In questi anni il PRI, riprendendo una tematica a lungo sviluppata da Napoleone Colajanni, sottolineò con vigore che la questione meridionale non poteva essere affrontata secondo l'ottica dellle leggi speciali (un'ottica che oggi si potrebbe definire di tipo assistenziale), ma poteva essere risolta solo attraverso una coraggiosa politica che, facendo leva sulle autonomie regionali fosse capace di risvegliare nelle popolazioni meridionali quella capacità di intrapresa che la politica fiscale dei governi monarchici e l'accentramento autotitario di stampo sabado avevano spento. 

I repubblicani avvertirono anche che il periodo di prosperità e di pace sociale di cui il Paese stava godendo grazie alla più duttile politica giolittiana era un periodo che non avrebbe potuto avere lunga durata, giacchè lo sviluppo del Paese, oltre ad essere rallentato dalle spese improduttive che si mantenevano su livelli non compatibili rispetto alle sue reali risorse, poggiava su un sistema che combinava il prelievo fiscale sui ceti più deboli, ad una politica di aiuti a ben individuati settori industriali e agrari, ed era pertanto destinato ad accentuare gli squilibri tra le diverse categorie e tra le diverse aree del Paese.

Il PRI si batteva perchè anche sul terreno economico il Paese si aprisse ai principi della libertà, ma avvertiva che questo tema si legava strettamente ai più ampi problemi istituzionali e sottolineava che il protezionismo e la politica di aiuti al capitalismo parassitario erano scelte strettamente funzionali al tipo di Stato che l'alleanza tra riformisti e giolittiani era andata costruendo.

 

40. La I Guerra Mondiale e la crisi della società italiana

Nell'autunno del 1911 la guerra di Libia provocò una crisi politica di vaste dimensioni, che attraversò tutti i partiti della sinistra, all'interno dei quali si manifestava la presenza di uomini e gruppi i quali dichiararono più o meno apertamente di condividere le scelte del governo.

Anche i repubblicani videro aprirsi una grave contraddizione tra i vertici del gruppo parlamentare, inclini ad accettare la tesi del fatto compiuto, e la base, che non era disposta a fare concessioni di sorta. 

Ma nel 1912 il Congresso nazionale di Ancona troncò ogni dubbio, ribadì la condanna nei confronti dei libici (così furono definiti gli uomini che avevano giustificato l'impresa coloniale) ed affidò la guida del partito a Giovanni Conti ed Oliviero Zuccarini.

La nuova dirigenza formatasi alla scuola di Arcangelo Ghisleri, iniziò un'opera di chiarimento, troppo presto interrotta dalla guerra.

All'indomani dello scoppio della Prima Guerra Mondiale - mentre i gruppi conservatori e militaristi premevano perchè l'Italia entrasse nel conflitto a fianco dell'Austria e della Germania - il PRI, che sempre si era opposto all'alleanza con i due imperi centrali denunciandone la natura conservatrice e reazionaria soprattutto sul piano interno, lanciò la campagna per l'intervento diffondendo centinaia di migliaia  di manifesti nel Paese in cui si proclamava l'alternativa: "O sui campi di Borgogna per la sorella latina, o a Trento e Trieste", e sottolineava che l'intervento non avrebbe avuto solo delle finalità nazionali; ma si collocava in una prospettiva europeistica: costruire "la nuova Santa Alleanza dei popoli...gli Stati Uniti d'Europa".

La linea interventista, che i repubblicani sosterranno con serenità e fermezza di fronte all'ambiguità di tutte le altre forze politiche, non era stata frutto di scelte facili. Il PRI, partito che aveva sempre combattuto il militarismo e i suoi miti, giudicandoli in contrasto con i valori della cultura e dell'unità nazionale, partito che si era sempre battuto contro la politica di potenza e di sopraffazione, sostenendo che anche la politica estera va assoggettata ai principi della democrazia, non sottovalutava nè i pericoli, nè gli orrori della guerra. Ma i repubblicani sentirono che era la natura stessa del conflitto ad imporre tale scelta, giacchè questa volta erano in gioco le sorti dell'umanità.

Posti di fronte all'interrogativo: "Che cosa accadrà se la guerra sarà vinta dalla Germania e dall'Austria, i due imperi che si fondano sui principi del militarismo feudale e dell'autoritarismo statale, e dove prevale una concezione di vita di per se stessa in contrasto coi principi della democrazia"?, i repubblicani non potevano avere esitazioni.

A guerra finita il PRI, avvertendo che il Paese si stava avviando verso un periodi di rivolgimenti politici e sociali che avrebbe comportato difficoltà forse ancora più gravi di quelle sopportate durante il lungo e sanguinoso conflitto, tentò di riannodare il dialogo con le altre forze della sinistra, nella consapevolezza che le dure polemiche divampate durante tutta la guerra non avessero ormai più alcuna ragione di prolungarsi. Secondo i repubblicani la sinistra non poteva e non doveva eseguire il suo slancio in una contesa sterile sulle cause dell'intervento, ma doveva fare ogni sforzo per trovare un punto d'intesa che permettesse di utilizzare la volontà di giustizia dei combattenti al fine di edificare la democrazia.

Al Convegno di Firenze che si svolse poco dopo la firma dell'armistizio, i repubblicani, oltre a riconfermare la loro piena adesione ai principi di Wilson, invitarono tutte le forze democratiche a battersi per la convocazione dell'Assemblea Costituente. Ma l'appello prontamente accolto dall'Unione socialista di Leonida Bissolati, dalla Confederazione generale del lavoro, dall'Unione italiana del lavoro e dall'organizzazione sindacale dei lavoratori interventisti, fu respinto dal PSI, ormai preda del massimalismo.

I socialisti, da un irrazionale volontà di rivalsa in una dura campagna di violenza, talvolta morale, talvolta fisica, nei confronti degli interventisti, non si avvedevano che l'indebolimento del fronte interventista democratico poteva avere il solo risultato di rafforzare i gruppi nazionalisti e militaristi, che già andavano organizzandosi con la complicità dei poteri dello Stato.

Nasceva il fascismo, che i repubblicani non ebbero esitazione a condannare, malgrado il suo iniziale "tendenzialismo repubblicano". La lotta tra repubblicani e fascisti si colorò ben presto di colori drammatici. Bande fasciste, dopo aver devastato alla fine del 1920 la sezione di Gorizia, attaccarono il 14 luglio 1921 la sezione di Treviso, che fu distrutta dopo un breve, ma duro combattimento . I repubblicani furono costretti a difendersi dagli attacchi quotidiani dei fascisti e dei nazionalisti, ormai lanciati alla conquista del Paese. L'Italia si vide calata in una contesa che si presentava quanto mai difficile per tutta la sinistra. Ci si è spesso domandati, in tutti questi anni, come mai il fascismo sia riuscito ad avere partita vinta pur disponendo, almeno fino al 1921, di forze relativamente ridotte. Ora, se è vero che il fascismo potè contare sulla complicità attiva dei poteri dello Stato, è altrettanto vero che la sinistra si apprestò allo scontro con il fascismo in condizioni di disarmo morale a causa dell'errore storico commesso dai socialisti con il loro ostinato rifiuto di riconoscere i valori della democrazia cosiddetta borghese. Con una tradizione politica e culturale di questo tipo era dunque prevedibile che la lotta contro il fascismo, che era sì anche una lotta di classi, ma era innanzitutto una lotta di libertà, avesse delle probabilità di riuscita assai modeste. Se poi si considera che nemmeno dopo l'assasinio di Giacomo Matteotti la sinistra fu capace di imprimere alla sua azione contenuti drammatici e rivoluzionari, quali solo una decisa lotta antimonarchica avrebbe potuto dare, si può spiegare come mai l'Aventino abbia fallito in tutti i suoi obiettivi e non sia riuscito a suscitare un solo fremito di ribellione nelle masse popolari, alle quali, evidentemente, non era possibile chiedere di battersi e di morire in nome di ideali per tanti anni derisi.

41. Il PRI contro il fascismo  

in "continua 1921 - 1944"