Moti democratici del 1953 nella Germania Est

Nel maggio 1953 il Politbüro del Partito Socialista Unificato di Germania (SED) innalzò le quote di lavoro dell'industria tedesca orientale del 10 percento. Il 16 giugno, una sessantina di operai edili di Berlino Est iniziarono a scioperare quando i loro superiori annunciarono un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote. La loro dimostrazione il giorno seguente fu la scintilla che causò lo scoppio delle proteste in tutta la Germania Est. Lo sciopero portò al blocco del lavoro e a proteste in praticamente tutti i centri industriali e le grandi città del Paese.

Le domande iniziali dei dimostranti, come il ripristino delle precedenti (e inferiori) quote di lavoro, si tramutarono in richieste politiche. I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est. Il governo, per contro, si rivolse all'Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare. Ci furono complessivamente quasi 5000 arresti. Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono. Il numero ufficiale delle vittime è 51. Dopo l'analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125.

Malgrado l'intervento delle truppe sovietiche, l'ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo. In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno e il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio.

In memoria dei moti nella Germania Est, la Germania Ovest dichiarò il 17 giugno come festa nazionale (fino al 1990, quando venne sostituito dal 3 ottobre, data della formale riunificazione) e la Charlottenburger Chaussee che attraversava Berlino Ovest venne ribattezzata Straße des 17. Juni.

Carro armato sovietico nella Schützenstraße di Berlino Est

Imre Nagy (1896 - 1958) ungherese

Imre Nagy (Kaposvár, 6 giugno 1896 – Budapest, 16 giugno 1958) è stato un politico ungherese, primo ministro in due occasioni. È considerato un eroe nazionale ungherese. È stato il punto di riferimento di un movimento che – all'interno stesso del Partito dei Lavoratori Ungheresi (marxista-leninista) – mirava all'apertura del paese all'Occidente (con la proposta di uscita dal patto di Varsavia) e ad alcuni principi tipici della liberaldemocrazia, culminato nella rivoluzione del 1956.

A seguito del fallimento della rivolta dovuto all'intervento delle forze armate sovietiche, fu imprigionato e poi giustiziato.

Nacque da famiglia contadina e fu anche un apprezzato fabbro, prima di essere arruolato nell'esercito austroungarico durante la prima guerra mondiale sul fronte orientale. Fu fatto prigioniero il 29 luglio 1916 dall'esercito russo sul fronte galiziano durante l'offensiva del generale Brusilov; scoprì il comunismo nel 1918 e venne quindi arruolato nell'Armata Rossa. Servì in Siberia, sotto il comando del commissario Jakov Jurovskij. 

È destituita di fondamento la voce che lo vede membro del plotone che trucidò l'ex-zar Nicola II, la sua famiglia e altri prigionieri del seguito: si tratta di un'omonimia con un Imre Nagy effettivamente presente, ma un tale nome e cognome sono ed erano molto diffusi in Ungheria. Nel 1921 tornò in Ungheria dopo la rovinosa caduta del governo di Béla Kun il 1º agosto 1919, con la messa fuori legge del Partito Comunista ungherese e l'incarcerazione di molti suoi dirigenti. Il suo ritorno in Ungheria portò aiuto al partito comunista ormai clandestino, ma nel febbraio 1930 dovette rifugiarsi a Mosca, dove studiò agricoltura nell'Istituto della capitale e lavorò nella sezione ungherese del Comintern.

Durante la permanenza di Nagy in Unione Sovietica, molti comunisti non originari della Russia vennero arrestati, imprigionati e condannati a morte dal governo sovietico. In particolare, Béla Kun, che guidava la Repubblica Sovietica Ungherese, scomparve nella metà degli anni Trenta. Questa tragedia provocò il panico tra gli emigrati ungheresi, come testimoniato da Julius Háy in Born 1900. In questo periodo Nagy divenne un agente dell'apparato di sicurezza dell'Unione Sovietica, noto col nome di Volodya.

Era una pratica comune ed il fatto che sopravvisse alle purghe staliniane degli anni trenta e anni quaranta rafforza questa tesi. Sembra che Nagy abbia smesso di lavorare per lo spionaggio verso la fine degli anni trenta. Rientrò in Ungheria al seguito dell'Armata Rossa nel 1944, alla caduta del regime dell'ammiraglio Horthy, ed entrò nel governo provvisorio di Debrecen, costituito il 22 dicembre 1944, ottenendo posizioni ministeriali, inclusa quella di Ministro dell'Agricoltura e di Ministro degli Interni. Nel suo primo incarico fu il ministro della riforma agraria del 1945, appena finita la guerra, una riforma storica per l'Ungheria che dissolse il latifondo.

Nel 1949 criticò numerose posizioni della politica agricola dell'Unione Sovietica e come conseguenza venne espulso del Politburo. Venne riammesso nel 1951, solo dopo aver fatto "autocritica"; realizzò poi le idee che aveva tanto osteggiato. Divenne vice Primo ministro sotto Mátyás Rákosi, ma fu promosso primo ministro dopo la morte di Stalin, quando Georgij Malenkov, successore di Stalin alla guida del governo dell'URSS, lo preferì agli altri membri del partito insieme a tutta la direzione collegiale del Cremlino nella riunione tenutasi a Mosca il 13 giugno 1953, pochi giorni prima dell'insurrezione di Berlino Est e pochi giorni prima della caduta di Berija, arrestato al Cremlino il 26 giugno con un colpo di mano preparato da Khruščёv e dal suo gruppo.

Nagy, a partire dalla riunione del Politburo del 27 giugno 1953 nella quale presentò un discorso con giudizio molto duro sul passato rakosiano e dal discorso più moderato in Parlamento del 4 luglio, cercò di creare un "nuovo corso" nel sistema comunista, moderando il ritmo dell'industrializzazione, permettendo ai contadini di abbandonare la collettivizzazione delle fattorie e limitando il regime del terrore. Tra gli altri liberò dalle prigioni János Kádár, incarcerato tre anni prima, pur essendo stato il ministro dell'Interno che aveva "convinto" alla confessione László Rajk nel 1949. Ma quando, nel 1955, Chruščёv, il vero detentore del potere, spodestò Malenkov, Nagy fu costretto a dimettersi dal suo incarico. Il 18 aprile fu sostituito da András Hegedus e fu espulso dal partito comunista.

La rielezione di Rákosi, un filo-sovietico, e il "discorso segreto" di Chruščёv il 25 febbraio 1956 al ventesimo Congresso del Partito Comunista Sovietico, contribuirono all'inquietudine dell'Ungheria. Per ammansire la diffusa scontentezza popolare, Rákosi fu costretto alle dimissioni il 13 luglio e un altro comunista ungherese, Ernő Gerő, fu nominato primo segretario. Ma gli eventi di fine giugno in Polonia, così come quelli in Ungheria, condussero ad agitazioni molto estese. Il 23 ottobre scoppiò la rivolta. Il Comitato Centrale, riunitosi in emergenza la notte del 23 ottobre, nominò Nagy Primo ministro, una posizione che detenne per 13 giorni, fino al 4 novembre. Al contempo furono chiamate le truppe sovietiche dietro richiesta firmata ancora dal Primo Ministro uscente András Hegedus. L'Armata Rossa, intervenuta il 24 ottobre con forze limitate trovò una sorprendente resistenza da parte degli insorti, tanto da risolversi al compromesso del 30 ottobre sul ritiro delle truppe dalla capitale e sul rispetto dell'indipendenza nazionale dell'Ungheria. Lo stesso 24 ottobre da Mosca arrivarono A. Mikojan e M. Suslov, membri del Politburo del PCUS, direttamente incaricati di seguire l'evolversi della crisi.

Durante il suo breve mandato come Primo ministro durante la rivoluzione ungherese, Nagy tentò inizialmente di mantenere tutto nella normale disciplina di partito. A partire dal 28 ottobre il suo operato seguì pienamente la volontà dei rivoltosi anti-sovietici. Propose l'amnistia per i dimostranti, abolì il sistema monopartitico e iniziò a negoziare il ritiro delle truppe sovietiche dall'Ungheria. Il primo novembre Nagy, in seguito alle ormai certe notizie di movimenti di truppe sovietiche che rientravano in Ungheria il giorno 31 ottobre, dopo aver protestato con l'ambasciatore sovietico Andropov, sfidò ulteriormente i sovietici dichiarando l'intenzione di far uscire l'Ungheria dal Patto di Varsavia. La decisione dell'intervento militare fu presa dal Politburo il 31 ottobre.

Già dal giorno precedente, in numerose parti del Paese era stata segnalata la presenza di truppe sovietiche e la capitale era accerchiata. Il generale Pál Maléter, Comandante in capo dell'esercito magiaro, continuava a negoziare il ritiro dell'Armata Rossa, finché nella notte tra il 3 ed il 4 novembre 1956 venne arrestato da un commando del generale Serov, capo del KGB, che era presente a Budapest dal 23 ottobre come consigliere militare d'ambasciata, durante le trattative nella caserma del quartier generale sovietico a Tokol presso Budapest con la delegazione sovietica guidate dal generale Malinin. All'alba del 4 novembre la radio trasmise un comunicato del capo del nuovo governo filosovietico, János Kádár, il "governo rivoluzionario operaio e contadino", il quale dichiarava che, non essendo possibile combattere i "sussulti controrivoluzionari" del governo in carica, ne veniva fondato uno nuovo.

I sovietici invasero Budapest il 4 novembre 1956 attuando l'operazione Turbine, sotto la supervisione del maresciallo Koniev, comandante in capo del Patto di Varsavia, con circa 200 000 soldati e 4 000 carri armati, e Nagy si rifugiò nell'ambasciata jugoslava, dove gli era stata offerta protezione, non prima di aver lanciato alle 5:20 dal suo ufficio governativo un accorato messaggio captato dalle radio occidentali: "Qui parla il Primo ministro Imre Nagy. Oggi all'alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d'Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nei combattimenti. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al nostro paese e al mondo intero". Chruščёv sapeva di correre pochi rischi assaltando Budapest, poiché era certo dell'appoggio del mondo comunista, in particolare di Mao, e sapeva che il mondo occidentale era alle prese con la crisi di Suez e con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Il 22 novembre 1956, dopo diciotto giorni di permanenza nell'ambasciata jugoslava di Budapest, Nagy e numerosi suoi collaboratori furono trasportati nel quartier generale del KGB, alla periferia della città. Da lì il giorno dopo furono caricati su due aerei e fatti proseguire per Snagov, una località vicino a Bucarest, in Romania, dove vennero accolti in un complesso riservato ai dirigenti di partito. Le autorità comuniste romene, sempre in contatto con i sovietici e gli ungheresi, ebbero cura di separarli in gruppi e di isolare Nagy dagli altri, per poi esercitare pressioni continue, tese a convincerli a firmare dimissioni retrodatate a prima dell'invasione sovietica, e dichiarazioni di condanna della controrivoluzione di ottobre-novembre.

Nel corso del vertice dei Paesi socialisti, tenutosi a Budapest dall'1 al 4 gennaio 1957, si parlò per la prima volta ufficialmente di Nagy. Nel corso dell'anno tre reclusi - tra cui il filosofo György Lukács - scrissero lettere in cui approvavano l'intervento sovietico e l'operato del governo Kádár, rinunciando a fare politica. 

Il 17 giugno 1958 un comunicato del ministro ungherese della giustizia informava che Nagy, Maléter e il giornalista Miklós Gimes erano stati condannati a morte e giustiziati il giorno prima. Altri due imputati erano già morti: il ministro Géza Losonczy era morto in carcere il 21 dicembre 1957, mentre Jozsef Szilagyi (capo della segreteria di Nagy) aveva avuto stralciata la sua posizione: processato e condannato a morte, era stato giustiziato il 24 aprile 1958.

I capi di tutti i partiti comunisti del mondo erano stati invitati a pronunciarsi sul verdetto e soltanto Gomułka si era astenuto, mentre Maurice Thorez e Palmiro Togliatti - cui Nagy aveva scritto una lettera, peraltro mai recapitata - avevano ritenuto più opportuno votare sì. Nell'approvare la condanna a morte nel novembre 1957, durante le celebrazioni a Mosca del Quarantennale della Rivoluzione d'Ottobre, il segretario del Partito Comunista Italiano ottenne però che l'esecuzione fosse rinviata a dopo le elezioni politiche italiane, che si sarebbero tenute il 25 maggio 1958.

Nagy fu riabilitato con un funerale di Stato dopo la fine del comunismo in Ungheria, il 16 giugno 1989. Alla cerimonia pronunciò un discorso anche il futuro primo ministro Viktor Orbán, che anni dopo ne rivaluterà la figura in chiave negativa, definendolo un "comunista della peggior specie". Il 6 luglio 1989 la Corte Suprema dichiarò ufficialmente riabilitati Nagy e i suoi compagni condannati nel processo del 1958.

Il 28 dicembre 2018 la statua di Imre Nagy posta nella piazza del Parlamento di Budapest è stata rimossa e ricollocata in un'altra piazza poco lontana. Al suo posto è stata collocata una statua in memoria delle vittime del Terrore Rosso durante la Repubblica Sovietica Ungherese, che era presente nella medesima piazza anche durante il governo filo-nazista di Miklós Horthy. La decisione è stata duramente contestata dall'opposizione, principalmente da socialisti e liberali, che hanno accusato il governo di Viktor Orbán di revisionismo storico. Il governo si è giustificato affermando che l'obiettivo della ricollocazione era quello di riportare la piazza al suo aspetto originale e di togliere più riferimenti possibili al precedente regime socialista.

Imre Nagy (1896 - 1958)

Ryszard Siwiec (1909 - 1968) polacco

Ryszard Siwiec nacque il 7 marzo 1909 a Dębica, in Galizia, allora parte dell'Impero austro-ungarico. All’inizio degli anni Venti la famiglia si trasferì a Leopoli (all'epoca parte della Polonia), dove Ryszard, terminato il liceo, studiò economia all'Università Giovanni Casimiro.

Successivamente trovò impiego in una ditta di Przemyśl (città a circa 100 km ad ovest di Leopoli). Perse il lavoro a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

Prese parte alla Resistenza polacca.

Nel 1945 si sposò; ebbe con la moglie Maria cinque figli. Successivamente divenne coproprietario di una ditta di prodotti alimentari (vino e miele).

Nel marzo 1968 sostenne i giovani polacchi durante la crisi politica che attraversò il Paese.

Fu colpito dalle proteste studentesche a Praga a dalla violenta repressione che ne conseguì. Nell'aprile dello stesso anno scrisse il proprio testamento (la famiglia lo ricevette per posta solo dopo la sua morte). La decisione definitiva di auto-immolarsi avvenne dopo l’occupazione militare della Cecoslovacchia, nell’agosto del 1968, a cui partecipò anche l’esercito polacco.

Preparò meticolosamente il suo atto di protesta radicale. Registrò un messaggio su nastro magnetico in cui accusò l'Unione Sovietica di imperialismo e di tentare di scatenare una nuova guerra mondiale.

L‘8 settembre era un giorno festivo in Polonia: si celebrava la Festa delle messi. Le più alte cariche del Partito comunista polacco e dello Stato si erano recate allo Stadio di Varsavia per i festeggiamenti ufficiali. Quel giorno Siwiec entrò nello stadio e, davanti a centomila persone, si cosparse di solvente e si dette fuoco per protestare contro la partecipazione delle truppe polacche alla repressione violenta della Primavera di Praga.

Appena le fiamme vennero spente intervenne la polizia che lo arrestò. Riportò ustioni sull'80% del corpo. Morì dopo quattro giorni in ospedale.

In Occidente la notizia non fu divulgata. La redazione polacca di Radio Free Europe ricevette la notizia dopo qualche giorno, ma la direzione non considerò la notizia attendibile. Solo nel marzo 1969, dopo l’auto-immolazione di Jan Palach, fu trasmessa la notizia del sacrificio di Siwiec a Varsavia.

Il gesto di Siwiec fu ripreso dalle telecamere della polizia politica e fu tenuto segreto. Il filmato fu scoperto e reso pubblico nel 2003

Ryszard Siwiec (1909 - 1968) polacco

Vasyl Omelianovych Makukh (1927 - 1968) Ucraino

Vasyl Omelianovych Makukh (Ucraina 14 November 1927,  – 5 November 1968, Kiev) Fu un veterano sovietico della seconda guerra mondiale, prigioniero politico e attivista ucraino e membro dell'esercito ribelle ucraino.

Dopo essere stato arruolato nell'Armata Rossa, nel novembre 1944 Makukh disertò e si unì all'esercito insorto nazionalista ucraino.

Nel febbraio 1946 fu ferito e catturato dopo una sparatoria con le guardie di frontiera sovietiche e polacche al confine sovietico-polacco (oggi confine tra Polonia e Ucraina).

Il 15 febbraio 1946, Makukh fu portato nel distretto distrettuale del KGB (Ministero degli affari interni sovietico) a Velyki Mosty e successivamente nella prigione n. 4 di Leopoli (conosciuta come "Brygidki").

L'11 luglio 1946, il tribunale militare della guarnigione di Leopoli (Lviv) lo condannò a 10 anni di lavori forzati (katorga) con cinque anni di detenzione ("limitazione dei diritti civili") più la confisca di tutte le sue proprietà.

Makukh ha scontato la pena a Dubravlag (Mordovia) e in altri campi GULAG in Siberia.

Il 18 luglio 1955 fu liberato ed esiliato in un insediamento locale, dove incontrò una donna che aveva anche scontato 10 anni di reclusione. Nel 1956 entrambi riuscirono a tornare in Ucraina e, essendo loro proibito di tornare nella propria regione, si stabilirono a Dnipropetrovsk (l'odierna Dnipro), dove si sposarono e Makukh lavorò come insegnante. 

Il 5 novembre 1968 si suicidò per autoimmolazione a Khreshchatyk, la strada principale di Kiev, in segno di protesta contro il dominio sovietico dell'Ucraina, contro la russificazione e contro l'invasione sovietica in Cecoslovacchia.

Prima della sua morte, Makukh ha gridato "Viva l'Ucraina libera!" 

Il 6 novembre 1968 l'ufficio del procuratore del distretto Leninsky della città di Kiev ha aperto un procedimento penale contro di lui a causa del suicidio, il cui esito non è mai stato reso noto.

Vasyl Omelianovych Makukh (1927 - 1968) Ucraino

Jan Palach (1948 – 1969) e le torce umane europee contro lo strapotere dell'Unione Sovietica

Jan Palach (Praga 11 agosto 1948 – Praga 19 gennaio 1969) è stato un patriota cecoslovacco divenuto simbolo delle libertà dei popoli europei e della resistenza anti-sovietica del suo Paese.

Di confessione protestante, era iscritto alla Facoltà di filosofia dell'Università Carlo IV di Praga, assistette con interesse alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Nel giro di pochi mesi, però, quest'esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell'Unione Sovietica e degli altri paesi che aderivano al Patto di Varsavia.

Palach e alcuni suoi amici decisero di manifestare il loro dissenso attraverso una scelta estrema: immolare le proprie vite suicidandosi. Erano cinque e Palach fu il primo. Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 il giovane si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. A soccorrerlo fu un tranviere che spense le fiamme con un cappotto.

Il 20 gennaio si diede fuoco Josef Hlavaty, operaio ventiseienne, morendo cinque giorni dopo.

Il 25 febbraio si autoimmolò Jan Zajíc, studente di diciannove anni.

Il 4 aprile, in occasione del venerdì santo, fu la volta di Evžen Plocek, operaio trentanovenne.

Ai medici Palach disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam, tra i quali il caso di Thích Quảng Đức (11 giugno 1963).

L'8 settembre 1968 Ryszard Siwiec, un impiegato polacco di 59 anni, si era già cosparso di benzina e s'immolò nello Stadio di Varsavia per protesta contro l'intervento dell'esercito polacco al fianco dei sovietici in Cecoslovacchia.

Il 5 novembre successivo il dissidente ucraino Vasyl Makuch si diede fuoco in una strada del centro di Kiev contestando la repressione sovietica nel suo Paese e in Cecoslovacchia.

Jan Palach morì in ospedale dopo tre giorni di agonia, il 19 gennaio 1969 alle ore 15,30, in seguito alle complicazioni dovute alle ustioni riportate. Jaroslava Moserová, medico chirurgo plastico che lo operò, disse: “sapeva che stava per morire, e voleva che la gente capisse il motivo del suo gesto: scuotere le coscienze e mettere fine alla loro arrendevolezza verso un regime insopportabile“.

Al suo funerale, tenutosi il 25 gennaio, parteciparono 600 000 persone, provenienti da tutto il Paese. Il feretro venne esposto nel cortile dell’Università Carolina. In tutta la città garrivano le bandiere nere. Un picchetto d’onore stazionava sotto la statua di San Venceslao, i giovani si davano il cambio nel reggere un drappo nero e la bandiera cecoslovacca. Centinaia di candele, copie della sua lettera e lumini ardevano ai piedi della statua e nella piazza davanti al museo, nel punto in cui si era dato fuoco Palach.

Le autorità però non consentirono la sepoltura nel cimitero degli eroi nazionali; inoltre il 22 ottobre 1973 le autorità fecero spostare la salma dal luogo di sepoltura, che dal giorno della tumulazione era divenuta un luogo di pellegrinaggi, con il sepolcro invaso di fiori, biglietti, poesie e foto. I resti di Palach vennero riesumati, cremati e le ceneri consegnate alla madre. Solo nel 1974 venne concessa l’autorizzazione alla sepoltura nel cimitero di Všetaty con le sole iniziali J.P. Restò lì fino al 25 ottobre 1990 quando, ormai caduto il muro di Berlino, si svolse la solenne cerimonia di trasferimento delle ceneri al cimitero di Olšany.

Palach decise di non bruciare i suoi appunti e i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali), che mise in un sacco a tracolla molto distante dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa, copie della quale furono anche inviate da Palach a Ladislav Zizka, suo compagno di studi, Lubomír Holeček, leader studentesco della Facoltà di lettere e Filosofia e all’Unione degli scrittori cechi. «Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà.»

Non si è mai saputo se davvero ci fosse un'organizzazione come quella descritta da Palach nella sua lettera. È certo però che, grazie a questo gesto estremo, Palach venne considerato dagli antisovietici come un eroe e martire; in città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche il teologo cattolico Zverina lo difese, affermando che "un suicida in certi casi non scende all'Inferno" e che "non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si toglie il suo bene supremo, la vita".

Questo clima portò a drammatiche conseguenze: almeno altri sette studenti, tra cui l'amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, nel silenzio degli organi d'informazione, controllati dalle forze d'invasione. Palach riposa presso l'Olsanske hrbitovy di Praga.

Dopo il crollo del comunismo, dell'Unione Sovietica e la caduta del Muro di Berlino, la sua figura fu rivalutata: nel 1990 il presidente Václav Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà, posta in piazza San Venceslao, a Praga. Nel 1989 gli venne intitolata la piazza nel centro di Praga fino ad allora dedicata all'Armata Rossa. Molte associazioni studentesche, anche di sinistra, lo ricordano come una persona morta in nome dei suoi ideali, e non sono pochi i circoli di giovani dedicati a Jan Palach.

 

Jan Palach (1948 - 1969)

Alexander Dubček (1921 - 1992) cecoslovacco

Alexander Dubček (Uhrovec, 27 novembre 1921 – Praga, 7 novembre 1992) è stato un politico cecoslovacco.

Nato a Uhrovec, in Slovacchia, nella stessa casa in cui nacque il poeta Ľudovít Štúr, da genitori che erano emigrati negli Stati Uniti d'America e tornati in Cecoslovacchia all'inizio del 1921, all'età di quattro anni si trasferì con tutta la sua famiglia in Unione Sovietica. Qui, accompagnando il padre nella regione del Kazakistan, fu testimone della tragedia provocata dalla campagna staliniana di «denomadizzazione» contro i kazachi, di cui ricorda in particolare le «scene terribili» degli esodi di massa della popolazione affamata e in fuga. Rientrato poi in Cecoslovacchia nel 1939, lavorò come operaio e aderì al movimento comunista clandestino, prendendo parte alla resistenza antinazista e all'insurrezione slovacca nel 1944. Nel 1951 diventò deputato dell'Assemblea nazionale e nel 1963 segretario del Partito comunista slovacco (che con quello di Boemia e Moravia formava il Partito Comunista di Cecoslovacchia, PCC).

Convinto della necessità di abbandonare il modello sovietico, Dubček riunì intorno a sé un folto gruppo di politici e intellettuali riformatori, diventando il maggiore interprete di una linea antiautoritaria – definita "socialismo dal volto umano" – e di una feconda stagione politica: la Primavera di Praga. Il 5 gennaio 1968 venne eletto segretario generale del PCC al posto di Antonín Novotný, leader della componente più legata al Partito comunista sovietico, dando avvio al cosiddetto "nuovo corso", una strategia politica volta a introdurre elementi di democrazia in tutti i settori della società, fermo restando il ruolo dominante del partito unico.

Il consenso popolare ottenuto dall'azione riformatrice di Dubček suscitò ben presto la reazione di Mosca e degli altri regimi comunisti est-europei, che, infine, si risolsero a porre fine all'eterodossa esperienza praghese ordinando, nell'agosto del 1968, l'intervento delle truppe del Patto di Varsavia. In conseguenza dell'intervento, egli fu arrestato dalle forze speciali al seguito delle truppe d'occupazione sovietica e trasportato assieme ai suoi principali collaboratori e ai più eminenti rappresentanti del nuovo corso a Mosca, dove fu costretto a siglare un protocollo d'intesa con il Cremlino che vincolava il suo ritorno alla guida del Partito con la normalizzazione della situazione politica nel paese. Nonostante questo, l'opposizione popolare al regime d'occupazione consentì a Dubček di mantenere una certa autonomia dal Cremlino, tanto che, in seguito ai suoi tentennamenti di fronte alle proteste anti-sovietiche della primavera successiva, egli venne rimosso dal suo incarico e inviato come ambasciatore in Turchia (1969-1970) e, infine, venne espulso dal PCC nel 1970. Quell'anno tornò in Slovacchia, dove trovò impiego come manovale in un'azienda forestale.

Tornò alla vita pubblica nel 1988, quando il regime gli concesse di viaggiare in Italia per ricevere una laurea honoris causa a Bologna; nella stessa occasione rilasciò anche un'intervista a L'Unità, dopo anni di silenzio, in cui ribadì le sue idee relative al rinnovamento e alla liberalizzazione della politica. Durante la visita a Bologna, fece tappa inaspettata anche a Ravenna, dove, accompagnato dal repubblicano e cooperatore Giancarlo Parma, ebbe modo di relazionarsi con i repubblicani storici della città romagnola.

Nello stesso anno le Comunità europee gli assegnarono il Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Acclamato durante la "rivoluzione di velluto", dopo la caduta del regime comunista Dubček fu riabilitato ed eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco. In questa veste si batté, come il capo di stato ceco Václav Havel, contro la divisione della Cecoslovacchia e compì l'ultimo suo atto politico rifiutandosi di firmare la legge di "lustrazione" (legge 451/1991) sull'epurazione, rivolta indifferentemente a tutte le persone compromesse con il precedente regime, nel timore che essa avrebbe creato nel paese un pericoloso clima di vendetta e colpito l'ala dissidente del Partito comunista repressa dopo il 1968, che recentemente si era riorganizzata nella formazione politica Obroda (Rinascita). Morì poco tempo dopo, il 7 novembre 1992, per le ferite riportate in un incidente autostradale avvenuto il 1º settembre nei pressi di Humpolec.

È sepolto al cimitero di Slávičie údolie a Bratislava, capitale della Slovacchia.

Alexander Dubček (1921 - 1992) cecoslovacco

Giorgio La Malfa

Giorgio La Malfa è nato a Milano il 13 ottobre del 1939. Laureato in Giurisprudenza nel 1961 a Pavia, ha conseguito nel 1964 la laurea in Economia politica all’Università di Cambridge. Dal 1964 al 1966 ha perfezionato gli studi presso il Massachusetts Institute of Technology.

Ha insegnato Economia politica e Politica economica nelle Università di Napoli, Milano e Torino ed è stato professore ordinario di Politica economica all’Università di Catania.

Deputato al Parlamento italiano per il Partito Repubblicano Italiano nelle Legislature:

VI (1972/1976);

VII (1976/1979);

VIII (1979/1983);

IX (1983/1987);

X (1987/1992);

XI (1992/1994);

XIII (1996/2001);

XIV (2001/2006);

XV (2006/2008);

XVI (2008/2013 )

Deputato al Parlamento europeo dal 1989 al 1991 e dal 1994 al 1999.

Nella sua attività parlamentare è stato:

Presidente della Commissione Industria nel 1979;

Presidente della Commissione Affari Esteri dal 1983 al 1987;

Presidente del Comitato per la Legislazione nel 1988;

Presidente della Commissione Finanze dal 2001 al 2005.

Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica dal 1980 al 1982.

Ministro per le Politiche Comunitarie e Coordinatore nazionale per la Strategia di Lisbona 2005 – 2006.

Dal 1987 al 2001 è stato Segretario del Partito Repubblicano Italiano (PRI).

Dal 2002 al 2006 è stato Presidente del Partito Repubblicano Italiano (PRI).

Nel 2007 è stato capogruppo, alla Camera dei deputati, della componente Repubblicani Liberali Riformatori.

Il 12 novembre 2012 è stato eletto vicepresidente dell’Assemblea Parlamentare NATO

È attualmente membro, e coordinatore della componente italiana, dell’European Leadership Network for Multilateral Nuclear Disarmament and Non Proliferation (ELN), organizzazione europea fondata da Lord Desmond Browne of Ladyton e formata da personalità di Paesi europei, compresa la Russia, che condividono l’obiettivo della riduzione concordata delle armi nucleari.

È autore di molti libri, fra i quali:

Le innovazioni nelle teorie dello sviluppo, Franco Angeli, Milano, 1970;

L’economia italiana dal 1974 al 1978, pubblicato in tre volumi (1975,1976,1977) Franco Angeli, Milano;

L’Italia al bivio. Ristagno o sviluppo, con E. Grilli, P. Savona, Laterza, Bari, 1985;

L’Europa legata, i rischi dell’Euro, Rizzoli, Milano, 2000;

J.M. Keynes, Luiss University Press, Roma, 2006;

L’Europa in pericolo : La crisi dell’euro, (riedizione de L’Europa legata), Passigli,,Bagno a Ripoli, 2011;

Sono un liberale? E altri scritti, John Maynard Keynes, a cura e con un saggio di Giorgio La Malfa, Adelphi, Milano, 2010;

Le mie prime convinzioni, John Maynard Keynes, a cura e con un saggio di Giorgio La Malfa, Adelphi, Milano, 2012;

Cuccia e il segreto di Mediobanca, Feltrinelli, Milano, 2014;

Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta e altri scritti di John Maynard Keynes, a cura di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese

 

 

Giorgio La Malfa

Link da copiare per video con lezione di Giorgio La Malfa intitolato: "Origini e storia dell'integrazione europea dal dopoguerra

https://www.giorgiolamalfa.it/nuovo/fondazione-la-malfa-su-radio-radicale-origini-e-storia-dellintegrazione-europea-dal-dopoguerra/