15. giu, 2022

98° post - Abbiamo un debito per l'avvenire contratto con Mazzini. Pubblichiamo a puntate il romanzo biografico "Une nuit de Rimini - vita di Giuseppe Mazzini"

Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 15 giugno 1833 in Piazza d'Armi in Alessandria furono fucilati per complotto mazziniano, Domenico Ferrari sergente furiere nel 1° reggimento della Brigata Cuneo di Taggia (nel petto) e, (nella schiena) Giuseppe Menardi sergente furiere della brigata Cuneo, di Rocca Sparviera, Giuseppe Rigasso sergente furiere della brigata Cuneo, di Livorno, Armando Costa di Lisiana (Genova) e Giovanni Marini sergente furiere nel 2° reggimento della Brigata Cuneo di Sunna, essendo sospesa la fucilazione di Luigi Viora, sergente furiere della brigata Cuneo, di Chivasso, la cui pena fu commutata in 20 anni di fortezza dal Re.

C’etait la nuit du 26 mars - une nuit belle, calme et serene, la luna illuminava col suo dolce chiarore la campagna di Rimini.
Vi era una bellezza indescrivibile in quelle linee, in quei gravi contorni che disegnano l’orizzonte romagnolo.
Vi era un sorriso in quel cielo azzurro, in quelle stelle aggruppate come giovani fanciulle.
Vi era un alito, una voce d’amore nell’aria, nel fremito delle foglie, nel mormorio dell’acqua che dolcemente scorreva.
Era una notte fatta per rammentare Francesca e Dante, il genio, l’amore, Dio e la Libertà.”

All’ingresso da nord della città, dove si incrociavano da milleottocento anni le strade consolari Emilia e Popilia costruite dagli antichi romani, che solo sedici anni prima nella sua piazza principale aveva partecipato e accolto il Proclama di Gioacchino Murat per l’Unità italiana, si erano adunati cento giovani senza divisa, in camicia bianca, armati malamente, qualcuno con fucili da caccia, altri con pistole, forconi e sciabole. 
Sulle barricate erette dai giovani riminesi comandati dal maggiore Pistocchi del piccolo esercito di volontari delle Province Unite di Modena, Parma, Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì, Ancona, e Perugia vi erano anche giovini di quindici e sedici anni.  

Si erano adunati già dal mattino per difendere un’utopia concreta, vissuta per poco più di un mese in alcune ex legazioni pontificie e nei ducati emiliani autoproclamate nella concordia di tutti i cittadini di quei luoghi, Province Unite.

Poco dopo il tramonto si avvertì un boato in lontananza avvicinarsi sempre più nitido pur dietro ad una coltre polverosa insieme allo scalpitio di zoccoli ferrati dei cavalli.
All’improvviso non emersero dal polverone i soldati promessi dalla Francia a Ciro Menotti per proteggere le Province Unite, ma un battaglione in divisa austriaca perfettamente equipaggiato, degno per tale forza ostentata (cavalleria, fanteria e cannoni) dell’esercito più forte del mondo, quale era conosciuto.
Alla testa dei soldati austriaci (prevalentemente croati e boemi sul territorio italiano e italiani nel territorio croato e boemo), in quest’occasione c’era il nobile principe di Liechtenstein, fedelissimo, come l’impero che rappresentava, del sovrano del Trono e dell’Altare a Roma, Gregorio XVI al quale voleva far riavere le città, le terre e le popolazioni delle Province Unite ribelli.

Dopo pochi minuti i volontari delle Province Unite aprirono il fuoco. Il maggiore Pistocchi, riconoscibile sul campo per l’elegante divisa dell’esercito dell’ex regno italico napoleonico, imbracciato il fucile, mirò con calma e mestiere, e con la sua palla colpì il comandante dello squadrone di cavalleria alla coscia, che cadde da cavallo, poi mentre i volontari si slanciavano all’attacco, anch’egli li seguì tirando il fucile scarico sui nemici.
Sguainò la sciabola e si lanciò verso il nemico, mentre intorno a lui molti giovini erano morti assieme ai soldati austriaci in una tremenda battaglia all’arma bianca. 
E così il maggiore incitò i suoi combattendo e gridando:
“Avanti! Avanti figli d’Italia. Eccoli i barbari, eccoli i tiranni, i carcerieri, i carnefici della bella Italia.
Vi è dell’oro sull’elsa delle loro spade: è l’oro dei vostri padri! Vi è del sangue sulle lame delle loro spade: è il sangue dei vostri fratelli.”

Nonostante gli oltre duecento morti inflitti al nemico, il piccolo esercito di volontari, dopo il primo attacco a sorpresa, iniziava a soccombere e ad arretrare disordinatamente. 
Un giovine al suo fianco vedendo la malparata si rivolse a lui dicendo: “Maggiore Pistocchi, cosa facciamo?”
Per tutta risposta il maggiore, come rispondesse a tutto il suo esercito gridò: “Avanti! Avanti Figli d’Italia!”
Mentre Pistocchi combatteva a colpi di sciabola, ad un tratto essa si spezzò e nel sempre più esiguo numero di resistenti ancora in piedi, finì anche lui a terra colpito da una baionetta nemica.
La battaglia volgeva al termine, grazie anche a quel suo colpo di fucile così ben assestato nella coscia del principe del Liechtenstein. 
Infatti, anche i soldati imperiali dopo tanto combattere, iniziarono a ripiegare per soccorrere il proprio comandante, che morirà e rimarrà sepolto sotto una lapide della chiesa dei Gesuiti a Rimini.

Fu in quel momento che sembrò ripetersi il gesto di Davide contro Golia; i giovini ancora in piedi si raggrupparono e pur privi del maggiore, si scagliarono in avanti sparando gli ultimi colpi a disposizione. 
Ma era l’ultima prova del coraggio indomito dei volontari che a breve sarebbero stati travolti dal nemico nettamente superiore per numero di uomini e mezzi.
Fu a quel punto che un giovine di vent’anni con barba, un buon fisico robusto e l’orecchino da corsaro, trovandosi vicino al maggiore ferito mortalmente gli disse: “Coraggio, comandante, vi porto al riparo”.
“No figliolo - rispose Pistocchi - ormai è finita. Come ti chiami ragazzo, qual è la tua Patria?”
“Mi chiamo Giovanni, Giovanni Venerucci, sono riminese, ma la mia Patria è l’Italia”.
Il riminese Giovanni Venerucci, per l’Unità d’Italia e la repubblica troverà la morte tredici anni dopo nel Vallone di Rovito (Cosenza) insieme agli altri eroi e martiri italiani fucilati insieme anche ai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera dai soldati del governo borbonico del Regno delle due Sicilie.
“Bravo, ora ascolta - disse ancora il maggiore - la battaglia è conclusa, ed è inutile sacrificare altre vite. Gli austriaci ritorneranno in forze e bombarderanno la città se troveranno resistenza. Ormai gli uomini del Governo delle Province Unite, che erano rifugiati a Rimini, sono in salvo sulla strada di Ancona e per la prima volta abbiamo dimostrato che per liberarci non dobbiamo aspettare altri che noi stessi, noi italiani. Italiani per gli italiani.
Voi ritiratevi in fretta, disperdetevi per le vie della città. Verrà un altro momento in cui potrete vendicare i fratelli. Viva l’Italia!”
Il giovine Venerucci ebbe ancora il tempo di vedere spegnersi la luce della vita dagli occhi del maggiore Pistocchi, e senza esitare subito dopo il trapasso, si alzò e urlò ai compagni rimasti di ritirarsi.

I volontari superstiti si misero così a correre in ritirata lungo la strada d’ingresso a Rimini e correndo a perdifiato passarono, senza curarsene troppo, sull’antico ponte romano voluto da Augusto e terminato da Tiberio nel 14 d.C. che in seguito l’illustre Andrea Palladio collocò nel capitolo dei Ponti nel suo trattato universale di Architettura quale il più bel ponte in pietra mai realizzato dei tanti da lui visionati.
Per gli ultimi giunti in ritirata sul ponte sul fiume Marecchia, fu impossibile sfuggire alla morte, essendo su di esso totalmente esposti al fuoco degli inseguitori. Altri, tra i quali Giovanni, passato il ponte si divisero ognuno per una strada diversa, chi verso l’Arco d’Augusto per la via maestra, chi per le viuzze dei vicoli lungo il porto canale ed altri ancora, una volta giunti nella piazza del Municipio si dissetarono fuggevolmente alla fontana realizzata tre secoli prima sul disegno di Leonardo da Vinci.

Nello stesso momento ad Ajaccio, in Corsica, alcuni passeggeri scendevano da un battello con la faccia stravolta ma felice. Tra essi c’era il ventiseienne Giuseppe Mazzini che con il viso terreo disse agli amici: “Sono sfinito, ma felice, perché in Corsica mi sento nuovamente in terra italiana.”
Al Porto, ad aspettarli c’erano parecchi compagni, Mazzini li abbracciò tutti, poi, rivolto a Antoine Galatti e Giuseppe La Cecilia esclamò: “che immensa gioia la vostra presenza!”
Con gli occhi lucidi Antoine non riuscì a staccarsi da Mazzini, mentre La Cecilia lo informò: “Giuseppe, alcune migliaia di volontari Corsi erano pronti ad imbarcarsi per l’Italia.
Ma il danaro e le armi non sono arrivate ed i volontari, stanchi di aspettare inattivi, sono ritornati alle loro case.”
Mazzini lo ascoltava con interesse e sguardo preoccupato, e mentre La Cecilia allargava il suo sguardo sui presenti, Galatti aggiunse: “Nel frattempo è giunta notizia che gli austriaci hanno sconfitto a Rimini l’esercito delle Province Unite e i capi, che si erano imbarcati ad Ancona con un salvacondotto del legato pontificio, sono stati arrestati in mare dalle navi austriache e trasferiti a Venezia. Purtroppo tutto è perduto e il vostro viaggio si è rivelato inutile.”
Al colmo dell’indignazione Mazzini esclamò: “Ah la Francia! La Francia ha rinnegato le sue promesse; non è più la Francia che si era dichiarata garante dei diritti dell’ uomo e di tutte le libertà d’Europa e quindi anche dei legittimi governi che si erano instaurati nell’Italia centrale; ma anche la Carboneria è venuta meno al compito che diceva di perseguire.”