9. lug, 2022

122° post - "UNA NUOVA INSURREZIONE NAZIONALE" - 4° paragrafo - parte I / 3° capitolo - I moti mazziniani dal 1852 al tentativo di Carlo Pisacane (1852-1858)

Dall'almanacco dei martiri del dovere, riportiamo che, come oggi, il 9 luglio 1849 morì a Marghera (Venezia), nella difesa della Repubblica di Venezia contro gli austriaci il bersagliere Angelo Lega del 3° reggimento volontari pontifici.

Una nuova insurrezione nazionale - parte prima

Giovanni Acerbi ricevette a Genova una lettera di Mazzini:”Caro Acerbi, bisogna che rimediamo, e rapidamente, a questo punto del danaro. I giovani d’azione e il popolo sono con noi. I rapporti di Milano, sulle disposizioni delle classi popolari, confermano le nostre previsioni. Così dappertutto. Ciò che ora importa è che l’amico Orlando lavori sollecitamente. Il razzo pistola è stato or ora esaminato dall’Ufficio di Guerra inglese e ne sono rimasti colpiti. Dite a Orlando di darvi un modello dei due, fucile e pistola, e studiate ogni modo per farli giungere a Milano nelle mani dell’amico. Bisogna tener pronti un cinquanta giovani decisi, intelligenti, pronti a mobilitarsi per introdursi in diverse località, come capi inviati da noi. Se raccogliete, somministrate al Colonnello Pier Fortunato Calvi l’occorrente per viaggiare nelle sue provincie....”
In quei giorni a Vienna nel Palazzo del Governo dal Principe di Metternich erano a rapporto i responsabili dello spionaggio austriaco in Europa. Metternich si rivolse a uno di loro:”Capitano Voller, attendevo il suo rapporto sui fuorusciti italiani e in particolare sul Mazzini, in vista del Congresso di Parigi, dobbiamo essere pronti a rispondere ai Piemontesi qualora intendano sollevare il cosiddetto problema dell’ Italia.” “Buone notizie e cattive notizie insieme - rispose il capitano Voller - Cominciamo dalle buone: ormai è certo lo scisma tra i repubblicani italiani. I più autorevoli, a capo dei quali stanno Manin, Montanelli e Cernuschi biasimano altamente gli ultimi atti del Mazzini, da loro soprannominato, spregiativamente, l’Antipapa. Essi pensano seriamente a separarsi dai mazziniani, non volendo assumersi la solidarietà delle loro follie. Inoltre un certo dottor Ferrari, un repubblicano federalista italiano ma da lunghi anni residente in Francia, è il più accanito ostacolatore di quel Comitato Nazionale Italiano, di cui parlai nel mio ultimo rapporto, e soprattutto dell’Imprestito di dieci milioni di franchi che il Mazzini chiede a destra e a manca per cacciare - dice lui - l’Austria al di là delle Alpi. Lo stesso Cernuschi, che aveva preso parte alla Costituente della Repubblica Romana, è ormai un suo fiero oppositore e al suo odio per Mazzini aggiunge quello per il Piemonte. Si dice che abbia perfino dichiarato, in casa di Montanelli, presente il Lammenais, Io amerei meglio vedere i tedeschi in Torino che i Piemontesi in Milano. E’ certo dunque che molti dei mazziniani della prima ora stanno abbandonando il loro profeta. Le notizie cattive sono presto dette: nonostante l’abbandono dei suoi ex amici, il Mazzini continua la sua propaganda contro l’Impero e trova purtroppo terreno fertile fra i giovani, gli operai e gli artigiani: ci giungono segnalazioni non equivoche dagli stati del Papa, dalle Calabrie e dalla Sicilia di strani movimenti e di fatti che ho ordinato di approfondire. Ma abbiamo il sentore che, nonostante abbiamo azzerato il suo Comitato lombardo, tenti qualcosa nel Regno Lombardo Veneto. Dopo la morte della madre dispone anche di notevoli sostanze che potrebbe impiegare sconsideratamente per finanziare le sue azioni terroristiche.”
“Raddoppiate le spie e tenete sotto controllo stretto le frontiere e, nonostante le defezioni dei suoi amici, non sottovalutate quel Mazzini - replicò Metternich - Nessuno su questa terra mi ha creato più difficoltà di questo brigante italiano, magro, pallido, emaciato ma eloquente come un apostolo, scaltro come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato. Raccomando inoltre di rendere più stretti i rapporti con la polizia di Torino e con quella di Parigi per avere continui aggiornamenti delle mosse sue e di quelli che in passato hanno avuto rapporti stretti con lui.”
Il due gennaio 1853, Mazzini salì sul battello a vapore che partiva da Calais per Anversa. Era una notte gelida a bordo del vapore. Il vento soffiava forte e Mazzini aveva molto freddo. Alla stazione di Anversa, Mazzini salì sul treno e si sedette in uno scompartimento di III classe per arrivare a Colonia in Prussia. Lì ebbe qualche ora di tempo per vedere la bella cattedrale (incompiuta), poi si imbarcò in un battello che viaggiava sul Reno verso la Svizzera: passò da due staterelli europei: il Granducato d’Assia e quello di Baden. Quindi passò in Svizzera (a Basilea) travestito da pastore protestante. Poco oltre salì in una carrozza che l’attendeva e lo condusse ai piedi delle Alpi svizzere che doveva attraversare per giungere nel Canton Ticino. Salì su una slitta a cavalli, attraversò il valico del San Gottardo. Faceva molto freddo e Mazzini si avvolse in uno scialle femminile che gli aveva regalato Bessie Hawkes alla partenza da Londra. La slitta sbalzò da destra a sinistra, da sinistra a destra e da una parte vi erano i precipizi e la strada era molto stretta. Si tolse i guanti e gli cadde l’anello che gli aveva lasciato in eredità Lamberti (una corniola con inciso il motto della Giovine Italia Nunc et semper). Infine con un’altra carrozza attraversò il Canton Ticino e arrivò a Lugano nella villa Nathan. Mazzini ospite dei Nathan incontrò nella loro villetta Giacomo Ciani e gli disse:”E’ tempo di rompere gli indugi e di agire. Lo dobbiamo ai cinque nostri martiri impiccati a Mantova, dopo mesi di torture fisiche e morali. E ancora duecento gemono a Mantova minacciati d’un simile destino. E nelle Romagne le condanne e gli arresti continuano, quindici patrioti sono stati condannati a morte dai comitati di Urbino e Pesaro! Meglio morire in una suprema gloriosa battaglia, combattuta al cospetto di Dio, piuttosto che vedere gli uomini migliori del nostro paese cadere a uno a uno sotto la scure del carnefice.”
Ciani interruppe Mazzini e lo abbracciò:“Calmati Pippo! - replicò Ciani - Vediamo il tuo piano per volgere la situazione in chiave diversa”. Mazzini passeggiava con Ciani e i due discutevano animatamente. L’espressione di Ciani sembrava incredula di fronte alle argomentazioni di Mazzini:”Il punto culminante della battaglia è sul terreno Lombardo. E’ però necessario che la lunga e debole linea austriaca sia assalita e rotta a un tempo su tutti i punti. Quindi necessita la quasi simultaneità della mossa che dev’essere di popolo e può essere rapida e concretizzarsi in 48 ore.” Ciani interruppe di nuovo l’amico:”E le armi?”
“L’ armi da guerra devono togliersi al nemico. Mentre i soldati sono in libera uscita lasciano in caserma le armi affidate a poche guardie. Saranno sorprese con altri nuclei di popolani e le armi distribuite. Nel frattempo saranno distrutti i ponti, rovinate le strade e posti ostacoli per evitare il concentramento delle forze nemiche. Gli austriaci, assaliti, cercheranno di accentrarsi sul Po e bisogna impedirlo. Una colonna volante si porrà a cavallo sui valichi dell’Appennino tra l’Arno e la Magra. Verrà innalzata dagli insorti la bandiera tricolore colle parole Dio e Popolo.” Ciani lo interruppe allarmato:”Ma Pippo, questo piano non potrà mai riuscire: uomini armati di pugnale contro i forti sorvegliati da militari armati di tutto punto !”
“No, No. Le forze austriache sono sparse in deboli presidi nelle Romagne, nelle Marche e nella Toscana e miste d’elementi ungheresi in lega con noi e vedrai che di fronte all’insurrezione popolare sgombreranno le città e cercheranno di raggiungere il quadrilatero sul Po, che non raggiungeranno mai...A Milano ogni cosa è pronta”.
Qualche giorno dopo, a Milano nel Palazzo sede del Viceré, il capo operaio Ferri si rivolse a un compagno che era con lui:”Non si vede nessuno dei 200 uomini promessimi dal Comitato con i quali dobbiamo assaltare la Guardia e prendere i fucili”. Dopo un po' di tempo delle persone arrivarono alla spicciolata mentre, altri rimasero nascosti nelle vie adiacenti. Ferri contò gli uomini e poi disse:”Siamo solo venti. Ma il piano va comunque eseguito. Dividiamoci in due squadre. La prima squadra entra dal secondo portone del Palazzo, dove è consentito ai cittadini di entrare, arriva alla seconda corte e prende di sorpresa e da tergo il corpo di guardia; la seconda squadra entra dal portone principale.” I popolani si avviarono, poi mentre entravano dal portone secondario nel Palazzo, attraversando il cortile, si buttarono di corsa verso la rastrelliera dei fucili e si armarono con quelli. L’altra squadra assalì il portone principale e disarmò la sentinella che cadde a terra ferita. Uno dei rivoltosi chiuse la porta della stanza dove era riunito il grosso della guardia. Le guardie, prese di sorpresa iniziarono ad affollarsi verso la porta, colpendola di pugni. Un soldato austriaco isolato accorse e venne gettato a terra tramortito. All’ingresso principale nel palazzo, altri uomini si impadronirono dei due cannoni sotto l’atrio mentre la sentinella accanto ad essi cadde ferita. I soldati chiusi nello stanzone trovarono un fucile e con un colpo riuscirono a far spalancare la porta: uscirono furibondi e afferrarono le armi ancora non prese dagli insorti. A tale reazione i ribelli dovettero retrocedere in fuga attraverso i portoni. Vicino al Castello, Brizzi, capo militare degli insorti milanesi, era in attesa con una trentina di compagni. “Ormai i cinquecento compagni dovevano essere qui per assaltare con noi il Castello, ma non si vedono ancora”. I trenta uomini, armati di corti pugnali si erano tenuti pronti al castello che, dal lato della porta dov’è il parco, era difeso da 5 cannoni. La situazione non era migliore alla vicina porta verso Porta Vercellina e l’altra verso Porta Comasina difese da due casematte con 5 cannoni ciascuna. Ai due lati di ogni porta vi erano poi 4 cannoni da una parte e 4 dall’altra con due mezze compagnie di soldati. Il terreno dinanzi alle porte era ingombro di tronchi d’ albero. Brizzi si guardò attorno e considerata la pochezza delle forze a disposizione ordinò ai suoi di ritirarsi. A Porta Vicentina gli insorti arrivarono correndo da una parte e dall’altra, con la Porta alle spalle una fila di soldati austriaci erano fermi con le baionette inastate e con davanti, in ginocchio, dei tiratori con il fucile puntato. I rivoltosi arrivarono quasi a contatto con i soldati, ma quando l’Ufficiale alzò la sciabola per ordinare il fuoco, con un rapido dietro front gli insorti si dispersero in ogni direzione. A Porta Ticinese un tenente austriaco quando vide arrivare una folla in parte di rivoltosi, in parte di curiosi, comprese donne e bambini, fece schierare le truppe e gridò verso la folla:”Ritiratevi, tornate a casa o faccio aprire il fuoco !” Il tenente fece un cenno al trombettiere che suonò l’attacco e immediatamente la folla si disperse in un precipitoso fuggi fuggi. Nelle vie di Milano in molti punti della città si registrarono cacce al soldato isolato che si trovava a passare davanti a piccoli gruppi di popolani. In qualche viuzza stretta sorgeva una barricata di poca consistenza che venne subito abbattuta da gruppi di militari austriaci. All’interno del castello, il maresciallo Radetsky parlò agli ufficiali austriaci a rapporto:”Dobbiamo dare una lezione esemplare a questi irriducibili illusi di poter combattere l’Imperial regio esercito. Preparate le forche davanti al Castello. Milano deve essere posta nel più stretto stato d’assedio, che deve mantenersi, con tutte le sue conseguenze, col massimo rigore”. Poi Radetzky chiamò il suo attendente, scrisse su un foglio e glielo porse dicendogli:”Si rechi immediatamente a Mantova e ordini che siano eseguite le condanne a morte dei ribelli mazziniani rinchiusi nel castello, già sospese in attesa di una eventuale grazia sovrana. Mandi questa nota al Prefetto affinché disponga che a spese dei milanesi si provveda al sostentamento dei militari feriti per tutta la loro vita, come altresì per quello delle famiglie dei 10 uccisi.”
Nel salotto in casa Stansfeld a Londra, Carolina Stansfeld aprì la lettera di Mazzini e si mise a leggerla: ”Lugano, 9 febbraio 1853. E’ purtroppo vero, cara Carolina. E’ un disastro. Di una massa organizzata, tutta egualmente buona, egualmente promettente, egualmente assetata d’azione, una ventesima parte soltanto si è mossa. Che cosa ha trattenuto tutto il resto? Vi è ancora un mistero, che io non posso per ora spiegare. Poiché tutto dipendeva dall’esito brillante dell’ azione in un punto, nessuno sconvolgimento vi è stato. Che Dio trattenga Bologna dall’agire! Un moto nell’Italia centrale non servirebbe a nulla. Ho l’animo amaro, come fosse saturo d’assenzio. Le conseguenze del disastro non possono essere calcolate da alcuno in questo momento. Più tardi saprete ogni cosa e vedrete che io non ero né pazzo né visionario, come tutta Italia crede in questo momento.”
Anche a casa Hawkes a Londra, Emilia aveva ricevuto una lettera di Mazzini e la leggeva alla sorella Bessie:”E’ una lettera di Pippo e porta la data del 12 febbraio”: “Nulla di nuovo, ahimè da dirvi. Qui siamo circondati dagli Austriaci alle frontiere e senza possibilità di ricever notizie. A nessuno è permesso di attraversar la frontiera. Io sto chiuso in una camera, sorvegliato, cercato. Una colonna dei nostri è stata arrestata da forze piemontesi, mentre varcava la frontiera per passare a Pavia; uno di essi è il giovane ufficiale Turr, che voi e Carolina avete veduto. La Lega contro di noi è completa. Però, in fin dei conti, un grande ammaestramento abbiamo avuto: la guerra al coltello : i pugnali contro i cannoni; e l’abbiamo avuto dal popolo. Siate sicura che non rimarrà senza frutto…”